L'Associazione Iyengar Yoga Italia dispone di un fondo denominato fondo Trade Mark. Tale fondo è composto dal 40% delle entrate annue delle quote trade mark versate dagli insegnanti soci, come previsto dal punto 7, pagina 4 del contratto di licenza del 02/04/2007, ed è utilizzato per finanziare attività per il sostegno e la diffusione dell'Iyengar Yoga nelle fasce deboli e svantaggiate in accordo con gli insegnamenti di B.K.S. Iyengar.
Il termine per la presentazione delle domande sarà il 31 Gennaio 2025.
Invia la tua candidatura in segreteria. |
Per l'anno 2019 la AIYI ha promosso un bando di assegnazione dei fondi ai progetti in linea con le finalità per cui il fondo è stato costituito, puoi trovare di seguito alcune relazioni di progetti realizzati.
di Carolina Godoy
Bologna, Giugno 2019
Durante gli ultimi trent’anni il fenomeno della migrazione forzata ha assunto dimensioni inaspettate per l’Italia, diventando un tema centrale nel dibattito pubblico. Una parte dei migranti è costituita da donne, migrazione che, anche se numericamente limitata rispetto a quella maschile, merita particolare attenzione per la vulnerabilità che ne caratterizza i soggetti.
Ho avuto la possibilità di dare un volto alle mille storie di donne che lasciano il loro paese per non tornare mai più attraverso una collaborazione con una delle associazioni che lavorano nell’accoglienza dei migranti a Bologna. Storie dolorose e violente dove la realtà a volte supera qualsiasi finzione. Qui nasce l’idea.
La migrazione forzata costituisce un’esperienza traumatica che compromette il rapporto con il proprio corpo e ostacola la possibilità di abitarlo in modo salutare; nella pratica dello yoga si apre invece lo spazio per un ascolto attento e rispettoso del corpo, dei suoi bisogni, dei suoi limiti, delle sue capacità e del suo stretto rapporto con gli stati della mente. Lo yoga poteva offrire a queste donne una via per sentirsi a casa dentro sé stesse.
Sostenuta dall’associazione YogaBo, ho presentato a due organizzazioni che lavorano nell’ambito del progetto SPRAR di Bologna - la cooperativa sociale Arca di Noé e MondoDonna onlus - un progetto consistente in un ciclo di lezioni di Iyengar yoga rivolto a donne richiedenti o titolari di protezione internazionale. In concreto, il corso si è basato sulla pratica di asana in piedi e sulla osservazione del respiro per creare stabilità, sviluppare forza e al tempo stesso rafforzare l’equilibrio.
La proposta è stata accolta con molto interesse e, insieme alle due organizzazioni, abbiamo diffuso il progetto tra le beneficiarie di diversi progetti di accoglienza. In generale, si tratta di donne che difficilmente riescono a instaurare rapporti significativi in contesti al di fuori della propria comunità nazionale di riferimento, e ancor più difficilmente riescono a dedicare tempo ed energie ad attività che hanno come obiettivo il loro benessere personale. Un gruppo di 12 donne, provenienti da Nigeria, Costa d’Avorio, Siria e Armenia, si è iscritta al corso; per tutte loro si trattava della prima esperienza di Yoga. Il lavoro coordinato con i loro operatori sociali di riferimento è stato fondamentale per riuscire a coinvolgerle.
Sin dall’inizio del corso, l’eterogeneità del gruppo dovuta alle differenze culturali, religiose e di età, nonché l’assenza di una lingua comune (alcune parlavano arabo, altre inglese, altre francese, altre un po’ di italiano) ha costituito una notevole difficoltà. A questo vanno aggiunti tanto i problemi fisici che le donne presentavano quanto, soprattutto, i problemi emotivi, come insonnia, stati d’ansia e stress. Inoltre, la partecipazione alle lezioni di alcune di loro è stata più di una volta ostacolata da una serie di altri impegni, quali appuntamenti legati al loro iter legale, o attività di formazione o, più semplicemente, la cura dei loro figli.
Per sostenere la partecipazione al corso e attenuare le differenze è stata molto importante la costruzione di uno spirito di gruppo, nel quale ognuna ha potuto mettere qualcosa al servizio delle altre; ad esempio, quelle che conoscevano meglio la lingua italiana traducevano per le altre. Imparare a praticare assieme significava anche imparare a fare affidamento sull’altro, per cui è stato fondamentale farle lavorare insieme durante le lezioni. È stato poi necessario essere flessibili e, senza mettere da parte la disciplina propria della pratica dello yoga, accettare qualche assenza e permettere alle donne di portare i loro figli alle lezioni. È stato molto particolare praticare mentre un piccolo bambino gattonava per la sala!
Per sopperire all’assenza di una lingua comune e far fronte alla loro difficoltà a percepire il proprio corpo, è stato utile l’uso dei supporti e di riferimenti quali il pavimento, la parete, le linee del tappetino, per donare loro una mappa in cui muoversi e conoscersi. Non è stato sempre facile farsi capire, ma al termine di questa esperienza, quello che ho imparato è che esiste un linguaggio universale e che lo yoga può avere effetti molto profondi anche senza l’ausilio della parola.
Infine, penso che sia stato essenziale per la buona riuscita del corso e per la nostra comunicazione la sensibilità e il rispetto delle differenze. Insieme a loro ho affinato la capacità di ascolto per riuscire a trasmettere il senso più vero della pratica, sempre con la massima delicatezza e nel rispetto del loro drammatico vissuto.
Valuto questo percorso come positivo, per me, come insegnante e come persona, e per le allieve. È stata un’enorme soddisfazione il vedere che le donne tonavano a lezione ogni settimana, che riuscivano a eseguire le posizioni, che riuscivano a rilassarsi alla fine della lezione e sentirle raccontare con entusiasmo che sull’autobus per un momento erano state consapevoli della tensione delle spalle e le avevano “allontanate dalle orecchie”!. Sicuramente un processo di più lunga durata sarebbe utile per raggiungere e poter valutare risultati più concreti.
Devo ringraziare la cooperativa Arca di Noè e MondoDonna onlus per aver accolto questo progetto, Elena e Rossella di YogaBo per avermi sostenuta fin dall’inizio, e le allieve per aver dato fiducia a me che portavo loro una cosa sconosciuta, lo yoga. Ho imparato molto da loro ed è stato un vero onore per me conoscerle.
Ringrazio infine la Loy che ha fatto si che tutto questo sia stato possibile.
di Tullia Colombo
Pontremoli, Aprile 2019
Vicino al luogo dove abito c’è un Istituto Penitenziario Minorile Femminile. Siamo in un piccolo paese, e non se ne parla molto, anzi fino ad alcuni anni fa nemmeno si sapeva che fosse attivo.
Grazie alla presenza di un nuovo direttore da alcuni anni l’Istituto offre alle ragazze ospiti attività di vario tipo, oltre ai normali corsi di istruzione scolastica e di formazione professionale. Tra i molti laboratori realizzati lo scorso anno ce n’è stato uno di teatro tenuto da un regista bolognese che si è concluso con uno spettacolo aperto al pubblico a cui ho assistito in settembre e che mi ha letteralmente catturato. Le ragazze hanno partecipato anche all’ideazione e scrittura del testo teatrale e si sono mostrate sul palcoscenico con grande passione e bravura, dimostrando un abbandono scenico nel gioco corporeo che ha trasmesso emozione e sincerità, anche nei momenti più drammatici e di rottura.
E’ stato allora che ho pensato che forse potevo proporre per queste ragazze un progetto di yoga da svolgere all’interno dell’Istituto. Il progetto è stato accolto con interesse dal direttore e dall’educatrice responsabile delle attività interne, ha carattere sperimentale e si tiene una volta alla settimana, per circa un’ora e mezza, per una durata di tre mesi (con possibilità di ripeterlo in autunno).
Il progetto è iniziato a Marzo e siamo quindi a metà del percorso.
Devo dire che finora è stata per me un’esperienza unica, che mi sta coinvolgendo molto, della quale sono molto contenta anche se è molto complessa.
Le ragazze presenti attualmente in Istituto – che loro chiamano comunque carcere – sono circa 18 e provengono dal nord e centro Italia. In Istituto Minorile le presenze non sono stabili, alcune ragazze restano più a lungo di altre ma in genere il ricambio è alto. Sono in grande maggioranza di popolazioni Rom di diversa provenienza e lingua, alcune ragazze sono italiane.
Al primo incontro ricordo che il pensiero che mi ha attraversato fulmineo è stato “ma sono piccole!”. Ed infatti, si tratta di ragazze giovanissime (alcune di 14-15 anni) ma tutte con un vissuto maturo e pesante, da adulte. Molte hanno figli, anche più di un figlio ciascuna.
La loro conoscenza dello yoga era legata al sentito dire, al cinema (“ci si mette sedute e si dice OOOMM”), una ragazza ricordava un’esperienza precedente in un altro Centro rieducativo e ci ha cantato una breve strofa in sanscrito. La rappresentazione che tutte hanno dello yoga è di un tempo da dedicare al rilassamento.
E in realtà rilassarsi è per loro la cosa più difficile.
Io ho iniziato invece a proporre loro lo yoga come gioco, come possibilità di esprimersi nel movimento, in sequenze dinamiche di asana collegati tra loro. Per provare a esplorare il tempo e lo spazio dello yoga, come tempo e spazio di ciascuna con il proprio corpo e nella relazione con le altre e con l’insegnante.
Ogni volta che ci vediamo la lezione prende una piega diversa da come l’avevo progettata. In Istituto ho imparato che la discontinuità è la regola, ogni accadimento è un ingresso prepotente che interrompe il flusso della lezione, l’attenzione e l’energia. Una notizia, le novità dall’esterno magari non buone, l’attesa, la compagna che viene a salutare, qualcuna che arriva in ritardo dopo il colloquio, qualcun’altra che non vuol fare ma vuol restare a guardare, lei non viene accolta bene, le altre due ridono, arriva all’ultimo la piccolina scatenata che si esibisce, mentre la schiena a una anche oggi fa male e all’altra è la pancia…
Nel mondo chiuso e super regolamentato dell’Istituto la stanchezza fisica e mentale è un ostacolo grande. Ma la curiosità, il piacere di sentirsi bambine che crescono, i cambiamenti dell’adolescenza che premono nonostante tutto, l’allegria e un po’ di gioia che esplodono quando si riesce a entrare nell’esperienza delle posizioni che fluiscono, sfidano, entrano nel corpo e la mente sta lì… ecco allora il gruppo si forma e la lezione si fa spazio (poche o tante, le stesse o alcune nuove… tutte partecipano). E alla fine, ora riusciamo anche a fare pochi minuti di rilassamento, con un senso di pace che entra dentro e che si può anche raccontare alle altre prima di salutarci.
Non so se e come finirà questa esperienza. So che per me è un grande arricchimento e da queste ragazze sto imparando, continuamente e ogni volta. Sono loro che mi conducono e sono loro che accolgono lo yoga, come possono e ricavandone il meglio che possono. Mi auguro che resti in loro la voglia di approfondire la conoscenza di sé, l’accoglienza e il rispetto del proprio corpo, l’accettarsi e l’accettare l’altro. Un poco di quiete per immaginarsi bene nel futuro.
Roma, Aprile 2019
M. è un allievo affetto da sclerosi multipla, invalidante, in sedia a rotelle; venne al mio studio 4 anni fa, dicendomi che dove la medicina non arrivava più poteva cominciare la via dello Yoga, gli era stato consigliato; seguendo le indicazioni di Garth Mclean, insegnante senior di Iyengar Yoga, (anche lui affetto dalla stessa patologia, che ha riconquistato l'uso delle gambe, grazie ad Iyengar stesso) che Gabriella Giubilaro, da 4 anni, una volta all'anno invita a Firenze, ho cominciato a seguirlo, recandomi a casa sua con decorrenza di una volta a settimana.
L'inizio è stato difficile, poiché la malattia neurologica non gli permetteva di prendere gli oggetti con le mani, e tanto meno muovere la gamba destra, gli occhi non seguivano il movimento, M. era come sconnesso, fu una conquista parsvatasana seduto. Ero io che gli portavo gli arti in posizione e lui non ne era cosciente.
Con l'aiuto dei seminari di Garth Mclean piano piano, c'è stato un notevole miglioramento, molte posizioni distensive, con il coraggio e la cautela che Garth consigliava, lo hanno aiutato a combattere la rigidità che la malattia gli procura, favorendogli le funzioni urinarie e intestinali.
Poi Gabriella Giubilaro gli ha fornito tutti i supporti per la pratica, abbiamo montato la spalliera, il supporto per Sirsasana, così per aiutarlo a fare la posizione bisogna essere almeno in due.
Grazie al fondo del Trade Mark ricevuto ho tentato di coinvolgere altri insegnanti andando in coppia da M. lo si aiuta con minor sforzo e maggiori risultati; infatti la difficoltà è passare da una posizione all'altra, cioè passare da seduto, a steso a terra, spostare le gambe, da destra a sinistra, in poche parole muoversi è quasi impossibile, se il comando dal cervello non arriva all'arto.
Dopo l'ultimo seminario con Garth, di quest'anno, a marzo 2019, è migliorata molto la capacità di M. di rilassarsi nelle posizioni, nonché la stabilità di stare in sedia e coordinare il movimento delle braccia o un po' in piedi, mani alla spalliera, oppure seduto sulla sedia, con la schiena dritta, senza cadere, senza perdere l'equilibrio, senza bloccarsi a causa di rigidità improvvise degli arti inferiori. Garth stesso lo ha trovato più tonico e meno teso.
Siamo una goccia dell'oceano, che a furia di battere nel punto crea una possibilità di uscire dal tunnel del dolore.
Grazie a tutti.
Continuo nell'impresa di coinvolgere più insegnanti, anche se Roma è una città difficile, i tempi stretti di ognuno, e le distanze, a volte rendono ardua l'impresa.
Io abito a più di 20 km da casa di M., ma vedendo i risultati, ho un ritorno: la fiducia indiscutibile del metodo Iyengar .
di Annapaola Alessio
Ottobre 2016 – Maggio 2017
Dopo aver affiancato Emanuela Zanda nell’insegnamento dello yoga nella sezione maschile della Casa Circondariale Lorusso – Cotugno di Torino per un paio d’anni, ho sentito l’esigenza di portare la mia esperienza nella sezione femminile, sentendomi più adeguata. L’idea guida del progetto era quella di sensibilizzare le donne, attraverso lo yoga, ad un ascolto del proprio corpo, partendo dal presupposto che la reclusione penalizza fortemente il corpo femminile.
Avevo pertanto ipotizzato una pratica che potesse mettere le detenute in contatto con il loro corpo, potendolo risvegliare e armonizzare, affinando la loro sensibilità e capacità di ascolto nelle diverse fasi della vita: le mestruazioni, la gravidanza o post-gravidanza, la menopausa e post-menopausa.
Il gruppo che ho seguito era multietnico (italiane, rumene, russe, nigeriane, francesi), di età diverse e con problematiche molto differenti.
Fin dalle prime lezioni si sono resi evidenti diverse problematiche quali:
Di fronte a questo quadro ho cercato di capire quali aspetti della pratica potevano essere utili e applicabili nel contesto sopra descritto.
La pratica delle asana in piedi si è rivelata poco efficace, ho percepito da subito che richiedesse un certo impegno e che avrebbe potuto allontanare le detenute dalle lezioni. Il disagio psicologico ed emotivo così ampio richiedeva un cambio di rotta rispetto al progetto d’inizio
Ho optato quindi per un lavoro più semplice e leggero sul respiro, che avesse carattere ristorativo e che portasse le detenute a placare, almeno in quell’ora alla settimana, l’ipersensibilità e l’iper vigilanza mentale di cui il carcere, come luogo e come relazioni al suo interno, le induce a soffrire.
Questo tipo di pratica è stata molto apprezzata dalle donne che dicono di averne tratto beneficio.
Non nego di essermi trovata spaesata e in difficoltà per essermi addentrata in un terreno sconosciuto.
La perseveranza e il riscontrare un lieve beneficio in qualche detenuta mi hanno incoraggiato a continuare quando le incertezze aumentavano.
Spero che l’esperienza di quest’anno mi servirà per mettere le basi per migliorare il mio lavoro del prossimo anno e rendere il mio intervento più mirato.
Relazione 07/06/2017
di Simona De Tilla
L’esperienza dell’insegnamento all’interno di un carcere femminile mi ha fatto toccare con mano che lo Yoga è una disciplina universale e veramente per tutti.
Le donne detenute che frequentano le mie lezioni di Yoga hanno tutte un comune denominatore: il dolore. Dolore espresso in molteplici forme: rabbia, aggressività, ansia, depressione, apatia, incuria per il corpo, perdita di autostima, ecc.
E’ stato difficile all’inizio individuare un linguaggio idoneo a persone di etnie diverse e completamente a digiuno di questa esperienza. Rileggere “L’albero dello Yoga” a distanza di qualche anno dove Guruji con semplicità e chiarezza illuminante espone lo Yoga in tutti gli aspetti della vita, è stato un punto di partenza per insegnare lo Yoga in un luogo dove sovente la dignità viene reclusa insieme alla libertà.
Un linguaggio molto semplice, diretto, per attirare l’attenzione, accendere l’osservazione, provocare la riflessione e poi la lettura di alcuni sutra, come il sutra I,31 “Il dolore, la disperazione, l’instabilità del corpo e del respiro turbano ulteriormente le citta”, per spiegare perché praticare Yoga è così importante per sé stessi. Il messaggio arriva. Lezione dopo lezione, ho riscontrato il coinvolgimento e l’interesse delle donne: la graduale presa di coscienza del proprio corpo e del proprio respiro genera curiosità, domande, voglia di apprendere di più. Insieme abbiamo imparato a utilizzare tutto ciò che è disponibile come supporti per gli asana: tavoli e sgabelli di plastica, i davanzali delle finestre e finanche i libri.
Spesso mi chiedono aiuto per le loro più frequenti problematiche: mal di schiena, dolori al collo e alle spalle, gambe con varici, insonnia e quindi propongo posizioni che possano aiutarle dando anche istruzioni per sequenze molto semplici da praticare autonomamente nelle celle.
Insegno in prevalenza posizioni in piedi, spesso al muro perché ho osservato in molte donne una notevole mancanza di equilibrio e insicurezza nel muovere il proprio corpo in spazi piuttosto angusti e condivisi con molte persone. L’apprendimento del pranayama, essenzialmente basato sull’osservare il proprio respiro e nell’imparare a rivolgere i sensi di percezione all’interno, ha prodotto buoni risultati sopratutto nelle detenute che seguono i programmi di recupero per le tossicodipendenze, dimostrandosi un valido strumento di riabilitazione per superare le proprie debolezze.
Nonostante le grandi difficoltà e i disagi che incontro, non ho mai pensato di interrompere il mio impegno nell’insegnare elle carceri, ripagata dall’affetto, dalla gratitudine, dall’interesse di donne private, seppur per giusta causa, dei due più importanti valori della vita: la libertà e le relazioni affettive.
Parole come Svadhyaya, Abhyasa, Tapas, Vairagya vengono conosciute, elaborate e commentate. Esprimono concetti privi di barriere spazio-temporali, proprio come se la libertà non venisse dall’esterno, ma dal cuore di una prigione.
Articolo tratto da Sadhana n. 3 - 2013
di Emanuela Zanda
Per prima cosa, vorrei raccontare come è iniziata questa attività. Desideravo svolgere volontariato come insegnante di yoga. Una mia amica avvocato mi ha suggerito di chiedere appuntamento al direttore della Casa Circondariale “Lorusso e Cotugno” di Torino, persona nota per la sua apertura e disponibilità.
Mi dilungherò un poco sui problemi burocratici ma sto imparando come la pazienza sia qualità indispensabile per il volontario che desideri operare in questi contesti. A giugno 2009 ho inoltrato la mia richiesta, a settembre ho avuto il primo appuntamento operativo con l'ufficio delle educatrici e a novembre ho iniziato le lezioni di yoga, una volta alla settimana, indirizzata ad un reparto denominato “Prometeo” che ospita detenuti sieropositivi.
Non esistevano locali adatti per la pratica, tutto l'edificio carcerario è sempre molto rumoroso e solo una minoranza dei detenuti sieropositivi erano interessati allo yoga. Ho iniziato con tappetini generosamente donati dalla scuola di Maria Paola Grilli, ma ho pensato anche di richiedere il contributo all'Associazione che dispone del fondo trade mark.
Quando la mia attività si stava un pochino consolidando ho avuto una brutta sorpresa: l'autorizzazione ad accedere all'Istituto era già scaduta automaticamente a fine anno e ho dovuto attendere oltre due mesi il rinnovo!! Mi è spiaciuto soprattutto per gli “allievi” con cui non avevo ovviamente nessuna possibilità di comunicare in modo autonomo.
Quando ho avuto autorizzazione a riprendere l'attività, mi è stato spiegato che anche l'ingresso del materiale per lo yoga avrebbe dovuto essere autorizzato formalmente, ed ottenere questa autorizzazione ha richiesto ancora molto tempo.
Come si svolgono le lezioni alla casa circondariale? Ho preferito usare, invece della piccola palestra che mi era stata proposta, il locale refettorio, il cui pavimento è sempre pulito. Lo spazio è adatto a 4-5 persone. Solo una minoranza è interessata allo yoga, ma in compenso i miei “allievi” sono discretamente costanti, molto rispettosi e davvero grati di quello che viene loro offerto. In questo reparto si svolgono parecchie altre attività, ma i detenuti apprezzano in modo particolare il lavoro dei volontari, per cui hanno grande stima.
Frequentando la Casa Circondariale si comprende immediatamente come il carcere sia lo specchio della parte più debole della società, la meno fornita di istruzione, conoscenze e competenze. Le statistiche parlano chiaro: su circa 66 000 detenuti in Italia, tre su quattro hanno un livello di istruzione bassissimo o inesistente, il 95% sono di sesso maschile e gli stranieri rappresentano oltre un terzo.
Il linguaggio che devo usare nelle lezioni è quindi più semplice di quello utilizzato nelle lezioni normali. Ho portato delle fotocopie dello scheletro con la nomenclatura, ma è difficile ottenere la loro attenzione su documentazione scritta: meglio chiedere direttamente alla persona di sentire la posizione dello sterno, delle costole, dell'osso sacro ecc. Nonostante questo il riscontro che le lezioni e la pratica ottengono, è esattamente lo stesso di qualsiasi lezione: poco per volta, allungando la spina dorsale, eseguendo posizioni in piedi, esercitando l'auto-osservazione, l’espressione cambia, il viso si fa meno teso, gli occhi diventano meno aggressivi e diffidenti e, alla fine della lezione è possibile qualche minuto di rilassamento.
Ad iniziare dal mese di maggio, ho avuto l'autorizzazione a fare lezione anche ad un altro reparto, dove le condizioni sono più difficili che al “Prometeo”: i detenuti sono in due o tre per ogni cella e gli esterni non sono autorizzati ad entrare nel reparto. Queste sono in realtà le condizioni normali della maggior parte dei detenuti del carcere. Questo reparto è destinato ai detenuti con permanenza molto breve e lo yoga è entrato a fare parte di una serie di attività di indirizzo denominate “progetto accoglienza”. Sono questi detenuti che stanno utilizzando il materiale acquistato con il finanziamento dell'Associazione: impensabile spostare ogni volta il tutto da un reparto all'altro, ci sono centinaia di metri di distanza e l'uso degli ascensori richiede la collaborazione delle guardie penitenziarie.
Qui è stato individuato un locale dismesso, di cui ho la chiave, che i detenuti hanno pulito, dove possono lavorare 7-8 persone. La caratteristica delle lezioni in questo reparto (Padiglione B, sezione ottava) è che i miei “allievi” sono quasi sempre diversi. Ho iniziato con un gruppo di 8 persone, la settimana dopo la metà erano usciti o erano state spostati di sezione, ma altri sono subentrati: così, in pochi mesi, almeno cinquanta persone, di varie nazionalità (albanesi, romeni, serbi, nigeriani, marocchini ecc.) hanno avuto una lezione di yoga.
Mi sento particolarmente grata nei confronti della mia insegnante, Maria Paola Grilli: senza il suo insegnamento e continuo incoraggiamento non mi sarei sentita di fare lezione in questo contesto. Infatti è fondamentale tenere alto il livello dell'insegnamento: in un'ora è necessario far capire loro perché lavoriamo a piedi nudi, l'importanza dei piedi nella posizione eretta, l'importanza dell'allineamento e dell'allungamento della spina dorsale. La risposta dei detenuti di questa sezione è generalmente buona: sono per lo più ragazzi abbastanza giovani, che amano il movimento e sentono con facilità il benessere che deriva dalle posizioni. Alla fine della lezione ho notato che trovano giovamento da una breve pratica di auto osservazione del respiro e possono comprendere la differenza tra i rumori esterni e la quiete del corpo e della mente.
L'associazione di cui faccio parte come volontaria presso la Casa Circondariale si chiama La Brezza ed una delle massime più amate dai volontari è: da cosa nasce cosa. Rispetto ai quasi duemila detenuti della Casa Circondariale di Torino, un giorno alla settimana di yoga da parte di una volontaria è una goccia in mezzo al mare. Eppure la soddisfazione è grande e le difficoltà non hanno fatto che spronare il mio desiderio di proseguire questa esperienza.
Tratto da lettera ai soci 14/11/2010
Via Leonardo Fibonacci, 27 • 50131 FIRENZE • Tel. 055-674426 • e-mail: info@iyengaryoga.it
Copyright © 2015 by IYENGAR® Yoga (Italy) • all rights reserved • privacy policy