Sadhana - Filosofia
02/07/2021
I Veda e la Cultura Vedica
di Emanuela Zanda
I Veda
I Veda sono il più importante complesso di testi sacri dell'India, di cronologia ed origine molto discussa, che costituiscono il riferimento dell’Induismo. Sono stati definiti “i più antichi tra tutti gli antichi documenti dello spirito umano in nostro possesso”, i testi dove “è possibile scorgere per la prima volta il processo con cui nella mente umana si forgiano gli dei” (Radhakrishnan, p.49 e p.58).
I Veda sono costituiti da 4 raccolte (Saṃhitā): Ṛgveda (Veda degli inni), raccolta originale e la più antica e importante fra tutte; Yajurveda (Veda delle formule sacrificali); Sāmaveda (Veda delle melodie), dedicato anch’esso alla pratica del sacrificio e al canto liturgico, e costituito da citazioni di strofe tolte per la maggior parte dal Ṛgveda; Atharvaveda (Veda delle formule magiche), raccolta originale, come i Ṛgveda, ma pervasa da elementi nuovi che tradiscono un’origine popolare, quali credenze e mezzi superstiziosi per contrastare occulte influenze demoniache. I quattro Veda, insieme ai Brāhmaṇa e alle Upaniṣad, composti successivamente, costituiscono la śruti, (ciò che è stato udito) con riferimento alla trasmissione diretta del sapere divino. Il termine veda ( vaēdha) indica infatti “sapere”, “conoscenza”, “saggezza”. Con il tempo, ogni Veda si trovò strutturato in tre parti: Mantra ( Saṃhitā), Brāhmaṇa (precetti e doveri religiosi) e Upaniṣad (filosofia).
Da un punto di vista ritualistico, i Veda sono per prima cosa un insieme di mantra, preghiere e inni sacri che dovevano essere recitati e cantati nel corso delle cerimonie; però sono anche una importantissima fonte storica, perché forniscono tante informazioni sulla vita economica e sociale. Per l'Induismo i Veda sono essenzialmente testi di carattere spirituale, il cui vero significato può andare oltre le parole. A seconda dei filoni di studio, un aspetto o l'altro sono più sottolineati da parte degli autori, antichi e moderni; senza dimenticare che si tratta di testi poetici in metrica di grande valore musicale e letterario. Si comprende quindi la sfida posta dalle traduzioni, dai commenti e dalle interpretazioni, data anche la mole complessiva del corpus (i soli Ṛgveda contano 1028 inni per 10552 versi!). Ancora oggi, i 4 Saṃhitā rappresentano per l'Induismo il corpus vivente della massima tradizione sacra e ancora oggi i rituali dell’Induismo si richiamano ai Veda (figura 1). Sono stati studiati e interpretati per secoli da generazioni di scuole e insegnanti, spesso specializzati in un gruppo o l'altro di inni. Nel XIX e XX secolo furono particolarmente studiati da Swami Dayananda e Sri Aurobindo. I Veda, fino al XIX secolo, non erano accessibili alle persone normali, ma soltanto ai membri della casta dei bramini.
Figura 1. Varanasi. La puja in onore di Agni, dio del Fuoco, di origine vedica.
Come si formarono i Veda
I Veda sono stati formulati in una forma antica di sanscrito e sono stati trasmessi oralmente almeno a partire dall'inizio del quarto millennio a.C., incrementandosi continuamente da allora (la datazione spazia dal 6000 a.C. al 1500 a.C.); ci sono motivi per ritenere che la civiltà in cui si sono evoluti vada ricercata nelle popolazioni neolitiche dedite alla pastorizia, che si muovevano in una una vasta area compresa tra Medio Oriente e valle dell'Indo, fino all'attuale India settentrionale. Tale civiltà, che ebbe probabilmente origine in Asia Centrale (Iran), parlava una lingua indoeuropea, e quando si stanziò stabilmente in India conosceva l'uso del rame, del ferro, del cavallo e del carro e finì per prevalere sulle civiltà indigene neolitiche della Valle dell'Indo (siti principali Mohenjodaro e Harappa), già in decadenza dal 1500 a.C. circa. Il graduale imporsi della civiltà “aria” (in quanto introdusse la lingua indoeuropea) portò con sé una forte stratificazione sociale (sistema delle caste); un sistema familiare ed ereditario patrilineare e un'economia mista, agricolo pastorale e artigianale. Nel corso del tempo la popolazione indoeuropea e quella indigena si mescolarono, anche culturalmente, ma allo stato attuale delle ricerche è impossibile negare che la cultura e la lingua indoeuropea si sia, almeno all’inizio, imposta su quella locale. Ma ci sono anche studiosi che ritengono superata la tesi di una “migrazione” (di “invasione” ormai non parla più nessuno) per ipotizzare che la civiltà “aria” sia autoctona dell’India, pur condividendo con l’area centroasiatica una somma di caratteri distintivi comuni, tra cui la lingua e alcuni pilastri delle credenze religiose.
I testi nacquero per essere cantati e recitati e così vennero trasmessi e imparati a memoria nella cerchia dei bramini per centinaia e migliaia di anni, forse anche con l’uso di tecniche mnemoniche particolari; però, ad un certo punto, furono scritti. Un inno dei Ṛgveda paragona il gracidio di uno stagno pieno di rane con gli esercizi di recitazione a memoria della scuola dei ragazzi bramini. La tradizione attribuisce la scrittura al rishi Vyasa; secondo l'analisi dei testi, questo passaggio avvenne forse intorno al III secolo a.C., migliaia di anni dopo il periodo in cui i primi Veda vennero formulati. La redazione scritta avvenne secondo le regole della grammatica di Panini (tra VII e IV secolo a.C.) ma i testi conservano molte espressioni di un sanscrito più antico, che sono state studiate dai linguisti anche alla ricerca del luogo d'origine della civiltà vedica o “aria”.
Il termine “indoeuropeo” fu utilizzato per la prima volta dallo studioso inglese Thomas Young nel 1813 e da allora rimase fisso per definire l'enorme famiglia linguistica cui appartiene anche il sanscrito dei Veda; fu a volte tristemente strumentalizzato in senso razziale negli studi dell’ottocento e novecento. La questione ideologica ancora oggi condiziona in modo pesante gli studi scientifici sui Veda.
La Civiltà Vedica
Le caratteristiche della civiltà vedica si desumono dai testi stessi. In primo luogo sono state accertate importanti somiglianze con i inni sacri iranici (Gāthās e Yasnas), di formazione e cronologia ugualmente incerta, riferibili alla predicazione di Zarathushtra e a popolazioni di pastori organizzate per clan e abitanti in una vasta area tra Iran e Afghanistan (Avesta). Molte somiglianze linguistiche inducono a pensare ad una comune origine delle due civiltà. Ma ci sono anche analogie dal punto di vista religioso e di organizzazione sociale, con riferimenti a divinità e vicende mitiche simili messe in evidenza dall’ importante studioso francese Georges Dumézil che per primo confrontò i testi dei Veda con i testi sacri iranici e poi estese le analogie ad altre aree della cultura indoeuropea, il Mediterraneo e la Scandinavia.
Figura 2. Principali nomi geografici e di tribù menzionate nei Veda.
L’area della cultura vedica si localizza nella regione ancora oggi chiamata Haryana e nel Punjab, tra India e Pakistan (Figura 2). Negli inni sono menzionati i fiumi Purushi (affluente dell’Indo), Ganga, Yamuna ed altri; inoltre ci sono riferimenti all’Himalaya e a numerosissime piante –anche medicinali- ed animali. Ci sono motivi per ritenere che il clima fosse più umido che oggi e che la pianura del nord India fosse coperta di foreste. Le coltivazioni della civiltà di Harappa avevano già iniziato la deforestazione, che proseguì, anche con l’uso del fuoco, in periodo vedico. Per quanto riguarda le tribù e i clan menzionati, gli esponenti della civiltà vedica si definiscono per lo più Arya, in contrapposizione agli anarya e dasas. E’ ancora discusso il significato di questa contrapposizione; certamente i soli arya erano autorizzati a celebrare riti religiosi. All’inizio gli autori degli inni erano per lo più pastori (figura 3), ma nel corso delle migrazioni vennero in contatto con popolazioni dedite all’agricoltura e al commercio. Nei Veda si parla delle tribù di dasas a volte come nemici, a volte come partner commerciali. Erano possibili rapporti di collaborazione nella gestione della terra per l’agricoltura e il pascolo; sono frequenti le allusioni ai furti di bestiame e relative controversie. La relazione tra le due culture si attua poi nell’adozione di una lingua comune, indoariana, con l’introduzione di termini presi anche dalla lingua dravidica e di lingue locali (bisogna ricordare che le lingue locali non erano alfabetiche). Il ricordo dell’antica migrazione, o della vita nomade, rimane in molti inni, con riferimenti ai paesi attraversati; un altro indizio della migrazione è la scarsa confidenza con la flora e fauna locali; ad esempio il riso era per loro sconosciuto all’inizio; erano sconosciuti tigre e rinoceronte, l’elefante era una curiosità, ed era descritto come un animale con una mano. L’animale tipico della cultura vedica, prima sconosciuto in India, era il cavallo.
Questo permetteva una maggiore velocità di spostamento, soprattutto con la civiltà del ferro e la possibilità di costruire carri veloci e robusti. La misura del valore era il bestiame, bovini e cavalli e questo portò alla venerazione delle mucche, utilizzate per il latte, il burro e l’agricoltura. Con la fine della pastorizia nomade e gli insediamenti fissi, si svilupparono metallurgia e artigianato e poco per volta le condizioni per una civiltà urbana (dal VI secolo a.C.).
Figura 3. Kabul, Museo Archeologico, coppa d'argento sbalzata con bovini affrontati, da Tillia Pepe, terzo millennio a.C.
Il più piccolo segmento della società era la famiglia (kula), che tendeva a essere patriarcale nel gruppo di status più elevato. Un certo numero di famiglie costituiva un grama, piccolo villaggio. Le famiglie vivevano insieme almeno fino alla terza generazione. Era praticata sia la monogamia che la poligamia. Il culto di Agni, dio del fuoco, rispecchia la parte più importante dell’insediamento o della casa. I divertimenti erano la musica, il gioco, le corse dei carri con relative scommesse. Per reciproca protezione le famiglie tendevano ad associarsi in clan e questi a riunirsi riconoscendo la capacità di decidere al personaggio più autorevole. Ci sono inni che raccontano di assemblee di capitribù e in questi casi, la donazione di bestiame riconosce l’autorità dei comandanti. In questo modo si struttura poco per volta il potere politico.
E’ frequentemente citato un re Sudas, spesso in combattimento contro altre tribù, e ci sono tentativi di collocare geograficamente tribù e battaglie in base ai riferimenti dei fiumi. I re o i condottieri vengono chiamati raja; i guerrieri rajanya o Kshatrya. All’inizio il re si identifica con il condottiero militare a cui si doveva la parte più ricca del bottino (capi di bestiame) conquistato. Ma poco per volta si distingue sempre di più il ruolo del sacerdote. Sin dall’inizio si intravvede la competizione tra il re o il nobile, e il sacerdote, che legittimava il potere del nobile con il rito. Alla fine il ruolo più autorevole spetterà al sacerdote. I sacrifici diventano sempre più elaborati dovendo legittimare un potere reale su una regione e una serie di clan. Un inno tardo dei Ṛgveda descrive il sistema delle quattro caste (varnas): bramini, Ksatriya, Vaishya, Shudra. La formazione della casta più bassa avvenne successivamente, dopo il maturo insediamento dei clan vedici in India, per indicare chi faceva un lavoro subordinato. All’inizio, all’interno della famiglia patriarcale, erano i figli più giovani e le loro famiglie; poi diventò un gruppo autonomo. Le differenze sociali ed economiche diventarono sempre più marcate, con il rigido divieto di matrimonio tra persone di caste diverse e con un controllo ancora più stretto sulle donne. L’accesso ai rituali era consentito solo alle caste elevate e vi erano regole minuziose per la partecipazione di ogni casta; quindi chi non rientrava nelle quattro caste era considerato fuori-casta ed escluso totalmente dalla ricchezza e dal potere; inoltre era anche considerato impuro. Il coinvolgimento di diverse professioni, con la specializzazione della vita urbana, rese facile creare sotto-caste all’interno di questo sistema. I bramini consolidarono il loro potere quale casta più elevata e la società indiana rimase così strutturata per secoli. La scarsità di divinità femminili e vari riferimenti ai sacrifici e alla famiglia fanno pensare che le donne avessero un ruolo del tutto subordinato nella vita politica e religiosa però potevano studiare e anche comporre inni. La letteratura e il canto dovevano avere un posto importante, in considerazione della raffinatezza della lingua e della metrica.
La religione Vedica
L’aspetto più importante dei Veda è quello religioso e liturgico. In alcuni inni, sono recitate diverse teorie sulla creazione del mondo, come risultato di una battaglia cosmica tra il cielo e la terra; in altri inni affiora l’idea di un dio creatore, Prajāpati , Brahamā o Purusha. Alcuni miti sulla creazione sono sviluppati poi nei Brahamana, come quello in cui dopo il diluvio universale sopravvisse solo Manu, che offrì un sacrificio da cui nacque il genere umano. La forma in cui si presenta la religione vedica è un politeismo complesso, in cui si ravvisa la chiara tendenza di molte delle divinità a rappresentare la ‘sovranità’, la ‘forza’ e la ‘ricchezza’ (fecondità e produzione di beni), secondo lo schema teologico tripartito individuato da G. Dumézil: il termine Trimūrti significa infatti “tre forme” (Figura 4). Secondo l’antica classificazione di Yaska (un grammatico forse del VII-V secolo a.C.)), le divinità si dividono in tre categorie: terrestri, celesti e atmosferiche. Tra le divinità principali ci sono Mitra e Varuṇa, simili alle divinità iraniche, che rappresentano la sovranità e sono custodi del regolare ritmo del cosmo, lo ṛtá, che è la norma universale della vita cosmica e anche dell’operare dell’uomo. Lo ṛtá implica una solidarietà magica tra la sfera naturale e l’operare umano, per la quale l’ordine rituale ‘sostiene’ e incrementa quello cosmico e ogni infrazione si ripercuote automaticamente sul trasgressore e sul mondo esigendo una riparazione (anch’essa strettamente rituale). Tuttavia l’universo e le sue origini non erano oggetto di una chiara cosmologia e metafisica, e poco per volta varie credenze vengono incorporate nella sapienza vedica, in modo disomogeneo.
Figura 4. Mumbai, Elephanta Caves, Rappresentazione della Trimūrti (V-VII secolo).
L’ordine del mondo viene difeso con la forza del combattimento di Indra contro le potenze del caos. Spesso l’inizio della narrazione mitica corrisponde a una contesa tra devas e asuras (dei e demoni) Numerose divinità vigilano e proteggono la ricchezza materiale e la produzione di beni, specializzate in modo da riflettere, in qualche modo, le molte attività particolari che si associano alla vita economica. Esisteva persino un dio medico degli altri dei, Dhanvantari, che nacque da un oceano di latte, portando un vaso di amrita, la bevanda dell’immortalità; molti sono i riferimenti nei Veda all’arte della medicina. Le divinità sono descritte in forma umana, con un corpo, braccia e gambe. Ci sono anche parentele tra le varie divinità. Gli dei si muovono e attraversano il cielo su carrozze tirate da cavalli alati. Accanto a queste divinità, nel Ṛgveda sono dedicati circa 200 inni ad Agni, il fuoco sacrificale, spesso associato ad altre divinità. Agni ispira molti inni di particolare bellezza e come elemento di purificazione è considerato intermediario tra dio e uomo. Un intero libro del Ṛgveda è dedicato al soma, la bevanda sacra dell’immortalità che è al centro del culto vedico; insieme a Indra (250 inni), Agni e soma sono i più menzionati. Resta il rilievo gerarchico degli dei sovrani, in quanto il Ṛgveda è per la massima parte destinato ai riti del soma che si prospettano come incremento di forza per Indra e che vengono eseguiti mediante Agni.
Impossibile comunque schematizzare la religione vedica, le sue divinità, con gli esseri divini (in forma di uomini, donne o animali) i suoi miti e riti. Infatti questi variano da un Saṃhitā all’altro, a volte anche in modo contradditorio. I miti venivano frequentemente ricreati e rivisti. Alcuni dei possono così avere più nomi e prerogative. Inoltre sono menzionati moltissimi saggi o rishi che si troveranno anche nella mitologia successiva. Chi desidera approfondire la classificazione delle divinità vediche può leggere la Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad, dove c’è un dialogo sul numero e la funzione degli dei.
Il sacrificio (yajna) è la cosa più importante del rituale vedico. I rituali potevano spaziare da molto costosi a molto semplici. I sacrifici rituali erano offerti con lo scopo di rendere propizie le divinità ed ottenere ricchezza, prosperità, vittoria o anche obbiettivi più specifici. I rituali vedici (operazioni liturgiche, costruzione dell’altare, uso del fuoco, del soma, del ghee, del latte, degli oggetti sacri; sacrifici di animali, sequenze dei canti e delle recitazioni; ruolo dei sacerdoti) sono osservati anche oggi, ma il processo rituale non è spiegato esattamente e direttamente nei Veda; si ricostruisce da testi più tardi. Inoltre, non sono pervenuti resti archeologici di altari o luoghi del culto dell’antico periodo vedico.
Il culto vedico era raramente pubblico (fenomeno unico nelle religioni antiche); anche le cerimonie solenni (śranta, cioè basata sulla śruti «rivelazione») che avevano ricorrenza periodica (per es., l’Agniṣṭoma, il più importante sacrificio del soma che si celebrava ogni anno in primavera) venivano eseguite su commissione e a favore di un privato che doveva provvedere alle spese del rito; se il committente era un re il suo popolo ne fruiva solo indirettamente, in quanto solo le caste più alte erano ammesse. Anche in questo si nota il conservatorismo tipico dell’induismo, in quanto il sacrificio mantenne nei secoli la caratteristica di libero atto di devozione. Proprio questo carattere originario, secondo Radhakrishnan, determinò l’esigenza di codificare formule e rituali; e con la codificazione sempre più attenta crebbe il numero dei sacerdoti. Con la descrizione sempre più meticolosa dei rituali, si sviluppano scienze come la matematica, la geometria, l’osservazione dei movimenti dei pianeti, il calendario.
Le cerimonie gṛhya, cioè «domestiche», erano quindi tali solo perché relative alla normale vita della famiglia e degli individui (nascita, pubertà, morte) ed erano eseguite dal capofamiglia stesso. Avevano carattere obbligatorio e non solenne alcune cerimonie quali l’Agnihotra (sacrificio mattutino e serale ad Agni) e i sacrifici mensili di novilunio e plenilunio
Il periodo tardo vedico
Dal XII secolo in poi gradualmente le popolazioni vediche abbandonarono la vita semi nomade e iniziarono a insediarsi in modo stabile, grazie anche alla tecnologia del ferro che permetteva di disboscare più facilmente. Si diffusero le coltivazioni del riso e dell’orzo. Gli insediamenti stabili e la diffusione dell’agricoltura portarono sicuramente ad un incremento demografico. Si accelerò la fusione con le popolazioni indigene che rimasero però escluse dal potere per via del sistema delle caste. Uno dei sistemi politici più antichi è il regno formato dal clan di Kuru che comprendeva l’area di Delhi, l’Haryana, il Punjab e parte dell’Uttar Pradesh. In questo contesto si sviluppò la matura civiltà vedica, con i rituali śrauta, inni e cerimonie connessi alla rivelazione diretta con la casta dei sacerdoti; si ritiene che nello stesso periodo si definiscano i caratteri principali dell’Induismo. Il testo di riferimento è l’Atharvaveda, una invocazione al re di Kuru, descritto come un reame ricco e potente. Re e familiari dei Kuru ispirarono anche il poema Mahābhārata , le cui vicende epiche rispecchiano le guerre e i conflitti del periodo, dove da un lato si consolidava il ruolo dominante della popolazione vedica, ma erano anche presenti numerosi conflitti tra clan e all’interno delle famiglie; e i gruppi locali si organizzavano nella resistenza, tanto è vero che il regno di Kuru fu alla fine sconfitto da una tribù non vedica, Salvi, menzionata nei testi.
Figura 5. Zona archeologica di Hampi, Karnataka. Le ruote del carro, più grandi degli elefanti, rappresentano il dharma
E’ interessante sottolineare come nel periodo vedico propriamente detto (fino al VI sec.a.C.) manchi una vera e propria filosofia e anche una concezione dell’aldilà. L’idea dell’anima o dello spirito era vaga, non era ancora presente un’idea di atman che si riconduce in un percorso a brahman. La dottrina del karma nascerà quindi dal concetto più grossolano di dharma (Figura 5) obblighi sociali e religiosi. Non è presente l’idea dell’ascetismo, che sarà alla base delle filosofie successive, come lo yoga; e in effetti, la rinuncia al mondo, ai doveri sociali, è antitetica in qualche modo rispetto alla cultura dei Veda. Si inizia a raccomandare l’ascetismo e la meditazione alla fine della vita, dopo aver soddisfatto i doveri familiari, sociali ed economici, ma non come pratica in se.
Il regno di Kuru, in decadenza dopo il IX secolo a.C., fu gradualmente sostituito e affiancato da altre organizzazioni statali, janapada (Figura 6). In un primo tempo queste unità politiche furono governate da assemblee di arya, all’interno delle quali veniva individuato il re; successivamente il sovrano fu riconosciuto per diritto ereditario, con la legittimazione del sacerdote. Si tratta dell’affermazione definitiva del brahmanesimo, ordine sociale in cui l’elemento predominante è quello religioso, cui si affianca poco per volta quello filosofico e speculativo e dove il sistema delle caste assicurava la stabilità delle istituzioni. Soltanto i sacerdoti potevano rendere efficaci i riti e i sacrifici, e assicurare l’armonia tra le forze della natura e l’operare degli uomini.
I testi raccontano che prima della nascita del Buddha esistevano 16 grandi regni che dominavano l’India settentrionale, Mahajanapada. E’ questo il periodo della “seconda urbanizzazione” dopo i grandi insediamenti dell’antica civiltà della Valle dell’Indo, e dell’organizzazione politica e sociale. Con l’espandersi della vita urbana, si differenziano le classi sociali e si sviluppa l’artigianato, come è documentato dai resti archeologici.
E’ in questo periodo che avviene una trasformazione fondamentale nella storia indiana che segna la fine del periodo vedico propriamente detto e l’inizio di una sorta di età dell’oro, il periodo in cui dal punto di vista religioso, filosofico e spirituale la civiltà indiana elabora il proprio contributo più ricco ed originale. Rimanendo in ambito vedico, Brahman viene ora identificato come l’anima universale, il non-manifesto, a cui tutti sono sottoposti, uomini e dei. L’Uno esclude ogni altro esistente e il mondo sensibile viene concepito ad un livello separato e inferiore da cui ci può affrancare soltanto dopo un lungo percorso di purificazione, che può durare il tempo di infinite morti e rinascite. Questa complessa concezione, sviluppata nel corso di secoli con gli inni più tardi, le Upaniṣad si fa strada parallelamente a movimenti spirituali non ortodossi (ovvero che non riconoscevano l’autorità dei Veda) buddismo e jainismo. La centralità del sacrificio viene superata, in quanto anche il sacrificio appartiene al mondo materiale e non può cancellare la legge del karma e il samsāra. In ambito ortodosso restano l’autorità degli antichi Veda e la prevalenza della casta sacerdotale che, non senza contrasti interni ed esterni, avrà un ruolo attivo e molto importante in questa fondamentale trasformazione.
Figura 6. La localizzazione dei più antichi reami dell'India.
Bibliografia:
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E. Bryant, The Quest of the Origins of Vedic Culture, Oxford University Press, New York, 2001
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R. Dalal, The Vedas. An Introduction to Hinduism’s Sacred Texts, Penguin Books, New Delhi, 2014
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G. Dumézil, Gli dei sovrani degli indoeuropei, trad.it., Einaudi, Torino, 1985
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Radhakrishnan, La filosofia indiana, dal Veda al Buddhismo, trad.it., Einaudi, Torino, 1974
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R.Thapar, The Penguin History of Early India from the origins to AD 1300, New Delhi, 2002
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Tra le prime e più importanti traduzioni inglesi dei Veda si segnalano: Rig-Veda-Sanhita, the Sacred Hymns of the Brahmans; together with the commentary of Sayanacharya I-VI, ed. Friedrich Max Müller, W.H. Allen & Co., London 1849-1875 [I-IV, W.H. Allen & Co., London 1890]
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R.T.H. Griffith (The Hymns of the Rigveda, translated with a popular commentary, E.J. Lazarus and Co., Benares: I, 1889; II, 1890 [Benares: I, 1896; II, 1897])
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La più recente e completa edizione italiana è Ṛgveda, Traduzione integrale in versi italiani, testi originali devanāgarī a fronte, introduzione e note esplicative a cura di Tommaso Iorco, La Calama editrice, Pontedera 2016, pp. 2096.
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