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Sadhana - Filosofia

06/08/2021


Differenza tra Śruti e Smṛti e gli Itihasa: Mahābhārata, Bhagavadgītā e Rāmāyaṇa

 

di Diana Giurgola

 


Conoscenza diretta e memoria


La filosofia e la letteratura indiana sono caratterizzate dalla tradizione orale e le opere antiche furono tramandate cosi. 
Nell'India antica si credeva che la memoria preservasse i contenuti in modo più accurato della scrittura. “Le tecniche mnemoniche elaborate dalla cultura brahmanica erano cosi raffinate da poter davvero sostituirsi efficacemente alla scrittura” (Lo Turco, 2013). Basta pensare alla celebre grammatica di Panini, l'Aṣṭādhyāyī, composta oralmente nel V sec. a.C. La cultura brahmanica provava un senso di superiorità o addirittura disprezzo nei confronti della scrittura, tanto che la tradizione vedica, di carattere orale, fondata sulla sonorità, fu nel tempo divinizzata ed elevata ad una dimensione trascendente, fino ad essere considerata “rivelata” ai rishi, i saggi vedici, i quali avevano il compito di tramandarla.
L'origine della scrittura è ricondotta agli Ambastha, una tribù poi assimilata ai Kayastha, gli scrivani appartenenti ad una casta di basso livello, proprio perché la scrittura era considerata impura, di secondo piano.
Ancora oggi è difficile datare l'inizio della scrittura in India e rimane argomento piuttosto controverso. È comunque riconducibile al III secolo a.C., periodo a cui risale il primo plausibile riferimento che introduce la scrittura: avviene con le “prime fattuali testimonianze epigrafiche con l’imperatore Aśoka alla metà del III sec. a.C.” (Torella, 2012, p.158). 
In una prima fase era proibito mettere i Veda per iscritto, ma col tempo, quando si cominciarono a redigere i commentari ai Veda, e quindi ad avere l'esigenza di tenere il testo originale accanto al commentario, questa proibizione si affievolì. Nonostante ciò, i Veda rimangono l'archetipo di tutta la sapienza e la fonte di ogni verità, sia che “espresse da 'testi' considerati prevalentemente orali, sia da veri e propri libri, come i Purāṇa e i poemi epici del Mahābhārata e il Rāmāyaṇa” (Prefazione a L'epopea di Pabuji, 2013).
Da qui, la suddivisione della letteratura antica dell'India in due categorie: testi appartenenti alla letteratura rivelata (śruti) e testi della letteratura prodotta dall’uomo (smṛti). La śruti (sostantivo femminile dalla radice sanscrita śru- «udire», lett. “ascoltato”) o rivelazione è la conoscenza udita al principio dei tempi e trasmessa oralmente dalla casta sacerdotale dei bramini. Racchiude l’insieme delle Scritture sacre contenenti la sapienza rivelata da Dio ai rishi, gli antichi saggi che la “udirono” in stato di contemplazione divina; da ciò la loro classificazione come apaurusheya, (di origine non umana). Pertanto, non è aperta al giudizio o alla valutazione, è indiscutibile e di natura canonica. 

Con smṛti o tradizione (sostantivo femminile, lett. ricordo, memoria), invece, si intende un insieme di testi sacri per la religione induista di autorità considerata però secondaria rispetto alla śruti. 
Mentre la śruti è ritenuta di natura autoritaria ed eterna, la smṛti è creazione di antichi veggenti e saggi. E' l’insieme dei testi prodotti in seno alla civiltà aria, esegesi o commenti tradizionali delle opere śruti. 
Questa letteratura, registrando la storia, la cultura, il linguaggio, gli usi e i costumi della società brahmanica, forma un tutto armonico con la sapienza propria della śruti, su cui si fonda. 

Śruti 


La letteratura śruti comprende le quattro Saṃhitā vediche o Veda propriamente detti che trattano aspetti diversi dell'induismo in forma di inni poetici: Rig Veda, il più antico testo dei Veda e la più antica opera della cultura indoeuropea, si compone di 1.028 inni denominati sùkta (lett. "ben detto"), composti da 10.462 strofe riguardanti elementi di culto sacrificale; Yajur Veda, il più antico esempio di prosa letteraria in sanscrito, un trattato che riassume tutto il rituale vedico dei sacrifici; Sama Veda, raccolta di strofe, composte come mantra cantate da un sacerdote e dai suoi assistenti; Atharva Veda, trattato delle formule magiche (sia positive che negative, di carattere popolare) e della medicina, poi divenuto manuale rituale dei bramini.
Ciascun Saṃhitā consiste di tre parti: Brahmana commentari composti secondo gli studiosi tra il 1100 a.C. e l'800 a.C.; testi in prosa che riordinano, organizzano e razionalizzano i rituali sacrificali presenti nei Veda; 
Aranyakas testi esoterici, segreti, riservati agli eremiti delle foreste o comunque recitati nelle foreste, composti tra il 1100 e l'800 a. C. che descrivono riti funebri e vita dei guerrieri nomadi (kṣatriya). Inoltre acquista importanza la coscienza di sé e si riconosce quindi il divino che si cela in ogni essere umano, ricerca che si approfondirà nelle Upaniṣad. 
Le Upaniṣad infine contengono per lo più dialoghi tra maestro e discepolo e trattano le questioni esistenziali dell’individuo. Questa peculiarità emerge nella stessa parola Upaniṣad, che deriva dalla radice verbale sanscrita: sad (sedere) e dai prefissi upa e ni (vicino) ossia "sedersi vicino" ad un guru, ai piedi del maestro, per riceverne gli insegnamenti. Composte tra l'800 e il 500 a. C. sono commentari "segreti" (rahasya) dei Veda, nonché loro 'fine', nel senso di completamento dell'insegnamento vedico; per questo motivo sono anche conosciuti come Vedanta (fine dei Veda). L’argomento principale trattato è la definizione di brahman (sé universale) e ātman (sé individuale), base del pensiero religioso indiano che, attraverso il Brahmanesimo giungerà, nella nostra era, a costituire quel complesso di dottrine e pratiche che va sotto il nome di induismo. Queste Upaniṣad vediche risultano essere quattordici e fanno parte della tradizione degli Āraṇyaka (testi religiosi segreti indiani, composti forse tra XI-IX sec. a.C.), mentre quelle posteriori, di epoca medievale e non riconosciute universalmente come śruti, devono la loro importanza alla scuola che le sostiene, e risentono l'influenza o della filosofia samkhya, o di quella di indirizzo yogico, o delle dottrine teistiche, ad esempio shivaite o visnuite. 

Smṛti 


Tutta questa letteratura rivelata è anche fonte di ispirazione, come detto precedentemente, per la letteratura Smṛti, quella invece prodotta dall'uomo. E'una letteratura molto vasta, e comprende alcuni fra i testi sacri più conosciuti.
Ne fanno parte i sei Vedāṅga (Membra dei Veda) che furono composti intorno al V-IV secolo a. C. e comprendono trattati di grammatica, fonetica, precetti rituali, astrologia, astronomia, lessicografia ed etimologia; il loro scopo è quello di manualistica inerente ai riti, ovvero suggerire le procedure o le pronunce corrette per la recitazione degli inni o la realizzazione dei culti. 
I sei Vedāṅga principali comprendono: Kalpa, Śikṣā, Nirukta, Chandas, Jyotiṣa, Vyakāraṇa. I quattro Vedanga secondari (upāṅga) comprendono: I Purāṇa, testi considerati delle “vere e proprie enciclopedie da cui è possibile trarre moltissime informazioni in merito agli usi e costumi dell’India nel loro periodo di composizione” (G. Boccali, S. Piano, S. Sano, 2000, p. 220). Contengono inni e invocazioni alle divinità, tra cui Śiva, Viṣṇu e la Dea. Di particolare interesse è il Mārkaṇḍeya Purāṇa che contiene il primo testo tantrico, denominato Devī Māhātmya, che narra le gesta eroiche della Dea e della sua potenza (śakti). Dei Vedāṅga secondari fanno anche parte i  Dharmaśāstra, Nyāya e Mīmāṃsā

Gli Itihāsa, (sostantivo maschile sanscrito; lett. "così dunque fu") sono le scritture epiche induiste, la cui lettura è consentita a tutti i componenti della società hindū, comprese le donne e gli śūdra, la quarta casta nel sistema delle caste in India, i servitori. 

Ne fanno parte i due grandi poemi epici dell’India: Mahābhārata, ( "La grande [storia] dei Bhārata") attribuito tradizionalmente a Vyāsa (il "Compilatore", appellativo di Kṛṣṇa Dvaipāyana) che racchiude al suo interno l'importante testo della Bhagavadgītā e il Rāmāyaṇa
 ("Il cammino di Rāmā") attribuito tradizionalmente a Vālmīki. 

Il Mahābhārata 


Il Mahābhārata è uno dei più grandi poemi epici indiani, assieme al Rāmāyaṇa.
Composto in lingua sanscrita, in un lungo arco di tempo compreso fra il IV sec. a.C. e il IV sec. d. C, il Mahābhārata è costituito da più di 100.000 strofe, divise in 18 libri, più un’appendice, l’Harivaṃśa, ed è opera, secondo la tradizione hindū, del grande saggio Vyāsa, antenato comune delle due famiglie guerriere che si fronteggiano nel poema, il quale avrebbe dettato il testo al dio- elefante Gaṇeśa (figura 1).
 

 Boston, Museum of Fine Arts, Miniatura dall’India, Rajashtan, XVII secolo. Gaṇeśa scrive il Mahābhārata dettato da Vyāsa 

Nonostante la trama sia sempre la stessa, e nonostante la tradizione abbia attribuito a Vyāsa l'opera, non esiste una edizione “ufficiale” dell'epopea, in quanto ci sono innumerevoli edizioni, che variano molto, specialmente tra Nord e Sud. La complessità e la vastità dei temi trattati nel poema hanno fatto credere agli studiosi che si tratti di un'opera scritta a più mani da vari autori, i quali ampliarono, nel tempo, un nucleo originale, risalente al IV sec. a.C. chiamato Jaya (“Vittoria”, per alludere alla vittoria del dharma sull' adharma, grazie all'intervento di Kṛṣṇa). Nelle edizioni a noi pervenute, il Mahābhārata consta di più di 95000 śloka (versi) nella versione detta "meridionale"; oltre 82000 versi nella versione detta "settentrionale" o vulgata;  circa 75000 versi nella versione ricostruita in epoca moderna, detta "critica”. 
Tra le opere principali e le storie contenute nel Mahābhārata, vi sono la Bhagavadgītā, la storia di Damayanti, una versione abbreviata del Rāmāyaṇa e la Rishyasringa, spesso considerate come opere a sé. 
E' un'epica dai contenuti mitici, religiosi e filosofici che narra il lontano passato degli Arii, il popolo indoeuropeo che si spostò in India, tramite la guerra di Kurukṣetra tra due stirpi di cugini, i Pāṇḍava e i Kaurava, per il possesso della regione fra i due fiumi Yamuna e Gange. Il poema racconta, allo stesso tempo, insegnamenti sui quattro scopi della vita umana: il dharma, ovvero l’osservanza delle norme etiche e sociali; l' artha, cioè il conseguimento dei beni materiali; il kāma, il soddisfacimento dei piaceri; il mokṣa, la liberazione dall’esistenza condizionata e dolorosa. 
A differenza dei Veda, che si dovevano tramandare rispettando il testo alla lettera, l'epica, essendo popolare e venendo recitata, poteva subire cambiamenti sia nello stile che nel linguaggio. Si stima che il sanscrito abbia raggiunto una “forma finale” dal IV sec. d.C., periodo in cui, probabilmente, tutto il testo ha raggiunto la sua struttura definitiva.
Il testo inizia con una dettagliata descrizione della geografia politica e fisica del Subcontinente indiano, attraverso il dialogo che Sanjaya, consigliere e auriga, fa con il suo re Dhṛtarāṣṭra. Questo tema è contenuto nell'opera Jaya, scritta da Vyāsa, che darebbe poi corpo a tutto il Mahābhārata. Oltre alle informazioni militari e alle strategie di guerra, ai racconti sugli eroi, sulla religione, la moralità, Sanjaya fornisce un elenco geografico e storico di città, province, regni, tribù, villaggi, fiumi, montagne dell'antica India, che hanno fatto pensare che l'origine del poema epico sia da collocare dopo il primo periodo vedico, e prima che sorgesse il più antico Impero Indiano nel III sec. a. C. Ma il poema ha un precedente storico nell'età del Ferro (vedica) nell'India del X sec.a.c. dove, un conflitto dinastico avrebbe potuto essere d'ispirazione per il Jaya di Vyāsa. 

Il tema centrale della storia riguarda il regno di Hastināpura, governato dal clan Kuru. Viene descritta una guerra tra cugini per la successione al trono: i Kaurava e i Pāṇḍava. I Kaurava erano i 100 figli del re Dhṛtarāṣṭra, di cui Duryodhana era il maggiore, mentre i  Pāṇḍava erano i cinque figliastri di Pāṇḍu  (Yudhiṣṭhira, il maggiore, Bhīma, il poderoso, Arjuna, l'ardito, e i meno noti Nakula e Sahadeva). Dhṛtarāṣṭra salì al trono con la morte del fratello, il re Pāṇḍu, in attesa che suo figlio Yudhiṣṭhira avesse l'età per essere re. Duryodhana, non accettò l'idea di lasciare il trono al cugino e, mosso da un profondo odio per i Pāṇḍava, programmò una serie di agguati per ucciderli, ma non ci riuscì. Il tempo passava, molte furono le avventure e disavventure che vissero entrambe le famiglie, finché, spinti ancora dall'odio verso i  Pāṇḍava, i cento Kaurava usarono uno stratagemma per privare i cugini della loro capitale, la città di Indraprastha (odierna Nuova Delhi): invitarono i Pāṇḍava a un torneo di dadi truccato e, questi, giocando, persero ogni proprietà,  furono esiliati nella foresta per dodici anni e costretti a passare un tredicesimo anno nella clandestinità. Se fossero stati trovati durante quel tredicesimo anno di incognito, avrebbero dovuto ripetere di nuovo la punizione. Alla fine dell'esilio, i cinque fratelli rivendicarono il loro trono, ma Duryodhana si rifiutò di rispettare gli accordi, facendo così scoppiare la famosa guerra di Kurukṣetra (figura 2), che la tradizione hindū colloca a cavallo tra il 3139 e il 3138 a.C. In questa battaglia, durata diciotto giorni, dopo alterne fortune, cui parteciparono attivamente anche gli dèi, soprattutto Kṛṣṇa con i suoi trucchi, i cinque Pāṇḍava sconfissero gli avversari in campo aperto e si reinsediarono in Hastināpura, com'era loro diritto, e governarono il regno per molti anni.

Illustrazione manoscritta della battaglia di Kurukṣetra, combattuta tra i Kaurava e i Pāṇḍava, registrata nell'epopea del Mahābhārata

 


Il vecchio Dhṛtarāṣṭra e sua moglie andarono a vivere in una foresta per condurre una vita tranquilla lontano dal regno. Kṛṣṇa morì dopo trenta anni dalla battaglia, segnando la fine dell'era del Dvāpara-yuga. I Pāṇḍava lasciarono la terra dopo aver portato a termine il loro compito. Così cominciarono a camminare verso il nord, verso le cime dell'Himalaya, per raggiungere il Monte Meru, il monte sacro dove si ritiene si trovi la regione dei paradisi. Sulla cima si trova il paradiso di Indra, che solamente Yudhiṣṭhira  riuscì a raggiungere, accompagnato da un cane che altri non è che il suo vero padre, il dio Dharma. 
Cosi termina il Mahābhārata, con la morte di Kṛṣṇa, la conseguente fine della sua dinastia e l’ascesa dei fratelli Pāṇḍava al cielo. Esso segna anche l’inizio dell’era hindū di Kalì (Kali Yuga), la quarta e finale età del genere umano, in cui i grandi valori e le idee nobili vengono a crollare, e l’uomo si dirige verso la decadenza delle giuste azioni, della moralità e della virtù. Lo schieramento delle due famiglie di cugini rappresenta lo scontro tra il bene e il male, la giustizia e l'ingiustizia (fino a chiedersi se la sofferenza causata dalla guerra possa mai essere giustificata).  Dèi e demoni compaiono non solo nel campo di battaglia, ma anche nel cuore dei protagonisti, che si vedono obbligati a seguire un dharma spesso ingiusto e a cui invano provano a ribellarsi. In questo senso il racconto è un potente strumento didattico, che usa lo svolgimento delle azioni mitiche per insegnare all'uomo come comportarsi, ricordando che è parte di un ordine divino in cui niente è casuale, e in cui la legge del dharma segna il cammino verso la liberazione.

La Bhagavadgītā 


La Bhagavadgītā, dal sanscrito “Canto del divino” o “Canto del beato”, è il testo sacro dell'induismo, composto da 700 śloka  (versi)  divisi in 18 canti (adhyāya), e contenuto nel VI parvan  del grande poema epico del Mahābhārata (figura 3). 

Washington DC, Library of Congress, Manoscritto della Bhagavadgītā , XIX secolo 

 

Attraverso una lunga narrazione epica, la Bhagavadgītā descrive i concetti e i principi del Karma Yoga, lo yoga dell'azione, e lo fa attraverso il dialogo tra  Arjuna, il principe guerriero dei  Pāṇḍava, e il Dio Kṛṣṇa, sul campo di battaglia di Kurukṣetra. La Gītā inizia quando due eserciti stanno per scontrarsi sul campo di battaglia per il controllo di un regno nell’antica India, in quanto la famiglia dei Pāṇḍava era stata ingiustamente esiliata e privata di ogni territorio dai loro stessi cugini, la famiglia dei Kaurava, tema, questo, narrato nei capitoli antecedenti del Mahābhārata.    
Al momento della guerra, Arjuna sceglie di allearsi a Kṛṣṇa, che gli si offre come auriga. Quando Arjuna distingue nell’esercito avversario i volti dei cugini, zii, amici e maestri, decide di deporre le armi e rifiuta di combattere contro i propri familiari, assalito dal dubbio e dalla  paura delle conseguenze negative che le sue azioni avranno sulla sua anima, perciò decide di rimanere impassibile (figura 4).

 
Pittura del XVIII-XIX secolo, Kṛṣṇa ed Arjuna a Kurukṣetra

La crisi di Arjuna è la crisi morale e psicologica dell’uomo d’azione, convinto che compiere il proprio dovere sia la cosa giusta da fare, ma in quel momento, quegli stessi principi, base delle sue credenze etiche, lo fanno crollare. Kṛṣṇa, rivelatosi come incarnazione (avatara) di Viṣṇu, l’aspetto divino compassionevole che si manifesta quando i valori umani sono minacciati, la coscienza divina nell’anima umana, da avvio al dialogo iniziatico che costituisce l'essenza della Gītā e risponde alla disperazione di Arjuna, impartendogli profondi insegnamenti religiosi, offrendogli la conoscenza del giusto agire e della liberazione, nel compimento del proprio dovere terreno per dissolvere i suoi dubbi e le sue paure ed incoraggiarlo a riprendere le armi compiendo i suoi doveri di kṣatriya, combattendo ed uccidendo, senza però farsi coinvolgere da quelle azioni. Kṛṣṇa guida Arjuna, attraverso la discriminazione, il distacco e l'azione, cardini dello yoga, a trovare l’Assoluto, lo Spirito, Dio nel suo cuore.                
 “Il tuo scopo è soltanto l'azione, non il suo effetto. Non permettere che il frutto dell'azione sia il tuo movente, né che il tuo attaccamento sia rivolto alla non-azione (akarmani)” (BG, II,47)
Cosi Kṛṣṇa, per fargli cambiare idea, espone le basi del Karma Yoga ad Arjuna, azione priva dell'ego e di desideri personali, un gesto di devozione verso Dio, che solo uno yogi riesce a compiere.
“Lo yogin è superiore agli asceti, agli uomini di conoscenza e agli uomini che operano: per questo, o Arjuna, diventa uno yogin” (BG, VI, 46)
Lo yogin deve essere un esempio per tutti gli esseri umani, affinché possano compiere ognuno le sue azioni, perché pur astenendosi dal farlo, i guna influenzerebbero ugualmente il proprio karman. 
“Il Karma-Yoga conduce alla liberazione dell'azione” (BG, III, 3I) 
“L'uomo non raggiunge la liberazione dall'agire astenendosi dall'azione, né ottiene la perfezione con la pura rinuncia” (BG, III,4)
Il sacrificio che Kṛṣṇa chiede ad Arjuna è quello di seguire il suo Dharma e scatenare la battaglia contro i Kaurava.
Per essere in grado di seguire il Karma Yoga e purificare le nostre azioni da ogni tipo di desiderio personale dobbiamo scegliere di sacrificare la nostra vita per Kṛṣṇa. (BG, VI, 30-31). 

Nella cultura Indù la realtà è un riflesso di Dio, quindi ogni persona è un’incarnazione della divinità, cosi come Kṛṣṇa. La bhakti si afferma come la via suprema, su ogni altra via spirituale. Infatti, Kṛṣṇa dice: “Io sono la vera essenza nel cuore di tutte le creature. Sono il loro inizio, la loro meta e anche la loro fine.”
Mircea Eliade riassume cosi il significato e gli insegnamenti della  Bhagavadgītā:   
“In sostanza, si può dire che il poema insegni l'equivalenza del Vedānta (cioè la dottrina delle Upaniṣad) del Sāṃkhya e dello Yoga; stabilisca la parità delle tre 'vie' (marga), rappresentate dall'attività rituale, dalla conoscenza metafisica e dalla pratica yoga; insegni a giustificare un certo modo di esistere nel tempo, in altre parole che assuma e valorizzi la storicità della condizione umana; proclami la superiorità di una quarta 'via' soteriologica: la devozione per Viṣṇu (-Kṛṣṇa)”  (Eliade, 1979, p.239).

Il Rāmāyaṇa 


Bahu (India), Acquerello, inizi XVIII secolo, Valmiki recita il Rāmāyaṇa al suo allievo Bharadvaja 


Come il Mahābhārata, anche il Rāmāyaṇa è un grande poema epico eroico, che usa i racconti mitici e storici con una funzione didattica ed educativa, ponendo le basi a quello che sarà l'induismo. La legge del dharma è di nuovo il tema centrale dell'opera, il cui nucleo originale è databile tra il V e il III sec a. C. mentre il suo completamento va ascritto ai primi secoli della nostra era (figura 5).
“Gli studiosi collocano la sua redazione definitiva intorno al II sec d. C. Peraltro, il nucleo originario della storia di Rāma è senz'altro più antico, forse ascrivibile al V-IV sec a.C.” (Rigopoulos, 2005, p.CXIV). 
Il suo cantore fu Vālmīki, un grande saggio che ricevette la rivelazione divina (figura 5). Secondo la leggenda, il saggio, dopo una vita dedita al banditismo, si ritirò nella foresta a meditare, sottoponendosi ad una severa immobilità ascetica per cosi tanto tempo che su di lui crebbe un formicaio (vālmik), da cui prese il nome.
Si pensa che di tutta l'opera, composta da 24000 śloka  divisi in sette libri (kanda), Vālmīki sia l'autore solo del nucleo centrale (II-VI), e che il primo ed ultimo libro siano stati aggiunti posteriormente. 
Il Rāmāyaṇa è giunto a noi in tre versioni, con notevoli differenze: l'edizione "meridionale" detta di Bombay o vulgata, probabilmente la più antica; l'edizione "nord-occidentale" e l'edizione "orientale", detta "bengalese" o gauda. 
A differenza di Vyāsa, Vālmīki usa uno stile elegante, raffinato, erudito; linguaggio che sembra anticipare la letteratura dell'epoca classica, e che fa pensare venisse recitato nei circoli intellettuali aristocratici e nelle corti reali, come racconto di una comunità di guerrieri. Nasce, infatti, in un ambiente altamente influenzato dall'etica kṣatriya. 
Questa epopea, che letteralmente significa il “Cammino di Rāma”, narra le vicende della vita di Rāma, nel momento di passaggio tra la fine del Treta-yuga e l'inizio dello Dvāpara-yuga. 
Rāma nacque quando il dio Viṣṇu apparse a suo padre Dasharatha, re di Kosala, dopo che gli dèi lo avevano inviato nel mondo per sconfiggere il re-demone Rāvaṇa. Viṣṇu diede al re una pentola di nettare. Dasharatha ne bevve una metà e l’altra metà la fece bere alla moglie, la regina Kaushalya, la quale, dopo aver bevuto questo magico nettare, rimase incinta e diede alla luce Rāma, figlio dunque in parte di origine divina. 
Rāma era un giovane principe valoroso e settimo avatara di Viṣṇu, molto bello, con uno straordinario autocontrollo e profondamente devoto alla sua unica moglie Sītā, a sua volta considerata avatara di Lakshmi. Sītā è vista come la vera essenza della femminilità indiana: un esempio elevato di virtù; anch'essa personificazione degli ideali di castità e devozione nei confronti del divino marito. Esempio, il loro, di perfezione e adesione al dharma, un vero modello di condotta morale ed etica, una storia ancora oggi ammirata in tutta l'India.
Rāma, principe ereditario del regno dei Kosala, insieme ai suoi fratelli, era imbattibile nel tiro con l'arco, e un giorno, il saggio Visvamitra lo invitò a partecipare ad una gara con l’arco indetta dal re Janaka per trovare marito alla figlia. Secondo le regole del torneo, un enorme arco di Śiva sarebbe stato posto al centro della tenda nuziale e la persona che fosse stata in grado di utilizzarlo avrebbe sposato Sītā. Rāma fu l'unico in grado di piegare l’arco, cosi, i due si sposarono dopo giorni di festeggiamenti e tornarono felici a vivere nella città di Ayodhya, capitale del regno dei Kosala, dove il re Dasharatha decise di passare il trono a suo figlio primogenito. A seguito, però, di una promessa che suo padre fece ad una delle sue tre mogli e matrigna di Rāma, Kaikeyi, venne nominato re, a suo malincuore, il fratellastro Bharata e Rāma, felice di ubbidire alla volontà paterna, fu costretto a quattordici anni d'esilio nella foresta di Citrakuta, accompagnato da sua moglie e dall’altro fratellastro Lakshmana. Vestiti da eremiti, si inoltrarono poi nella giungla e camminarono fino ad arrivare alla foresta di Dandaka e successivamente Panchavati, dove vissero in una capanna vicino ad un fiume, tra avventure e disavventure, in un contesto idilliaco che però li mise a dure prove. Qui vennero scoperti da Surpanaka, sorella di Rāvaṇa, che tentò di distruggere Sītā e sedurre Rāma. Non riuscendoci, chiese aiuto al fratello Rāvaṇa, re di Lanka, demone dalle dieci teste e venti braccia (figura 6), il quale, con stratagemmi e allontanando con inganno Rāma e il fratello dalla capanna, riuscì a rapire Sītā. 


Una rappresentazione di Rāvaṇa, il re di Lanka, circa 1920

Quando Rāma e suo fratello si resero conto dell'accaduto, in preda allo sconforto, iniziarono la ricerca dell'amata e chiesero aiuto ad una stirpe molto antica di scimmie dalle origini divine, chiamate Vanara, e capeggiate dal dio-scimmia Hanuman. Questi, grazie ai suoi poteri, riuscì a trovare la principessa, che rimase casta durante tutta la lunga prigionia, resistendo ancora alle provocazioni e ai maltrattamenti di Rāvaṇa, sapendo che Rāma  l'avrebbe presto salvata. 
Insieme ai guerrieri scimmia, ad Hanuman e al fratello Lakshmana, Rāma riuscì a costruire un ponte tra l'India e Lanka (l'odierno Sri Lanka) e raggiunse finalmente l'isola, dove combatté contro Rāvaṇa uscendone vincitore e liberando Sītā, la sua cara amata che non poteva, però, ancora riprendere come sposa per non andare contro le convenzioni del suo tempo. Sītā infatti era mal vista agli occhi del popolo, in quanto aveva trascorso troppo tempo con un altro uomo e dovette cosi sottoporsi alla prova del fuoco, per dimostrare di essere rimasta fedele al suo sposo durante la prigionia. Infatti, usci illesa dal fuoco, mostrando la propria virtù e insieme tornarono ad Ayodhya, dove Rāma sali finalmente al trono che Bharata, consapevole dell’ingiustizia, con gioia gli lasciò. Nonostante anch'egli sia rimasto devoto alla moglie, e nonostante Sītā abbia dimostrato, non solo devozione, ma anche sacrificio e coraggio, si vide costretto, per rispettare il dharma, la regola sociale, ad allontanarla e mandarla in esilio nell'eremo del saggio Vālmīki, in quanto, ormai, nel regno molti non la accettavano più, e come re, non poteva permetterselo. Sītā, sconvolta dalla decisione del marito, si ritirò nella foresta, dove diede alla luce e crebbe da sola due gemelli, Lava e Kusha, che divennero giovani uomini intelligenti, saggi e valorosi. Dopo anni, Rāma li incontrò per caso nella foresta e quando chiese loro chi fosse il padre, raccontarono la storia di Rāma, il quale subito andò a cercare sua moglie per farla tornare con lui. Ma Sītā, ancora ferita ed umiliata, dopo avergli consegnato i due gemelli, rifiutò la sua proposta e, dopo un ultimo giuramento di innocenza, chiese alla madre di accettarla e la terra si aprì e venne inghiottita. Rāma, nella disperazione, mori poco dopo anche lui e, assorbito dal corpo di Viṣṇu, sali al cielo, dimostrando la sua origine divina.


Washington, Museum of Asian Art, Rama e Sita assisi sul trono con Hanuman e Lakshmana in atteggiamento devozionale (XVI secolo).


L’obbedienza di Rāma agli ordini del padre, il senso di giustizia del fratellastro di Rāma, la devozione a Rāma di Hanumān, il coraggio di Rāma di combattere contro Rāvaṇa per salvare l’umanità e la moglie dai pericoli della lussuria e dell'arroganza, la fedeltà di Sītā rappresentano tutte azioni di compimento del dharma, il dovere, la legge comportamentale, l’obbligo morale, la verità e la lealtà, base quotidiana della fede e dell’etica induista (figura 7).
La vita costantemente ci pone davanti infinità di prove, che ciascuno deve continuamente e valorosamente superare. Spesso si passa per momenti difficili, di profonda perdizione, indecisione, ci si sente veramente come persi nella “selva oscura” delle proprie rappresentazioni inconsce e dei propri demoni interiori. E' per questo che tali opere sono un esempio e un insegnamento per superarle e per dominare le emozioni, offrendo modelli di comportamento ed esempi di nobili qualità umane, come il coraggio, la fedeltà, l'amicizia, la famiglia, la lealtà, l'amore.  L'esilio, l'isolamento può rappresentare il momento (e l'opportunità) di cui tutti abbiamo bisogno per stare soli con noi stessi, per ascoltarci, per conoscerci, per trasformarci e crescere in modo tale da essere poi pronti a riaffrontare la propria vita, con una corretta attitudine, rispettando il proprio dharma.
Per questo la storia di Rāma e Sītā è oggi una storia ancora viva, ancora amata in tutta l’India per la sua suggestione e per l’universalità dei suoi valori. 
Il compimento del dharma, caposaldo dell'ordine cosmico e sociale, è quindi il fondamento etico anche di questa opera, ricca di insegnamenti morali, politici, religiosi e sociali.

Bibliografia

  • Ambrogio Ballini,  Mahābhārata, in “Enciclopedia Italiana”, 1934 (https://www.treccani.it/enciclopedia/mahabharata_%28Enciclopedia-Italiana%29/)

  • Ambrogio Ballini,  Rāmāyana, in “Enciclopedia Italiana”, 1935 (https://www.treccani.it/enciclopedia/ramayana_%28Enciclopedia-Italiana%29/) 

  • Bhagavadgītā, con il commento di Sri Śaṅkarācārya , Milano, Luni Editrice 2014

  • La Bhagavadgītā così com'è , con il commento di A.C. Bbhaktivedanta Swami Prabhupada, Centro Studi Bhaktivedanta, 2019

  • Giuliano Boccali, Stefano Piano, Saverio Sani, Le letterature dell’India, Boccali, Le letterature dell'India, Torino, Utet, 2000.

  • Oscar Botto, Storia delle Letterature d'Oriente, Milano, Vallardi, 1969

  • Peter Connolly, Il pensiero Yoga, Edizioni RED, Milano, 2008

  • Mahābhārata, raccontata da Rasupuran K.Narayan, Milano, Guanda, 2000 (Le Fenici Tascabili)

  • Mircea Eliade, Storia delle credenze e delle idee religiose, Milano, Sansoni, 1979.

  • Bruno Lo Turco, Prefazione a “L'epopea di Pabuji, le cerimonie nuziali” di U. Mondini, Roma,  Progetto Cultura 2013

  • Vittore Pisani, Laxam Prasad Mishra, Le letterature dell'India, Firenze-Milano, Sansoni, 1971

  • S. Radhakrishnan, La Filosofia Indiana, Volume I, Dai Veda al Buddhismo, Edizioni Ashram Vidya, 1998, Roma.

  • Il Rāmāyana,  Traduzione e cura di Gaspare Gorresio, Genova, Fratelli Melita Editori, 1988

  • Rāmāyana, raccontato da Rasupuran K.Narayan,  Milano, Guanda, 2010

  • Raffaele Torella, Il pensiero dell’India, Carocci editore Roma 2012

Referenze immagini

Wikipedia, Boston-Museum of Fine Arts; Wikiwand, Washington-Library of Congress; Bahu, collection Lacma; harekrsna.com; Smithsonian Institution

                                                                                                        

 
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