07/03/2023
di Isabella Resta
Praticare e sentire
“Quante dita dei piedi possedete ed osservate sul tappetino? E, quante tra queste, ne SENTITE?”
Le domande, solo in apparenza bizzarre, rivolte dall’ insegnante di Iyengar yoga in una classe alla quale sto partecipando, segnano istintivamente e con forza dirompente la scelta di intraprendere lo studio dello yoga. Queste parole avevano instillato una prima superficiale consapevolezza di quanto, fino a quel momento, le esperienze legate al mio sentire riguardassero solo taluni aspetti del mio essere, individuati a volte negli anfratti del cuore o della mente, altre nell’analisi delle relazioni intraprese con gli esseri umani che mi circondavano, settori comunque disgiunti dal contenitore grossolano che li comprendeva.
Il mio corpo infatti, abituato ad una singolare flessibilità derivante da una naturale e molto anomala lassità articolare, non soltanto allora comunicava faticosamente con l’Anima, ma non era in grado di stabilire relazione alcuna con la percezione sensoriale neppure superficiale.
Dopo aver frequentato il corso insegnanti e conseguito il certificato nel 2005, mi sono recata più volte a studiare al Ramamani Iyengar Memorial Institute di Pune, e quasi inconsapevolmente, in questi anni emozionantissimi quanto faticosi, ho collezionato appunti, immagini e ricordi di esperienze che poi più avanti avrebbero salvato il mio destino.
Stenosi lombare: sintomi e cure chirurgiche
Un brutto giorno del 2005, un violento dolore nella zona sacro-iliaca mi ha risvegliata prestissimo al mattino e mi ha reso impossibile muovermi dal letto per una settimana. Le cure poi consentirono una temporanea riduzione della infiammazione e del dolore, senza rimuoverne le cause.
Nei quattro anni successivi la pratica yoga con i supporti permise un’esistenza quasi normale fino al momento in cui la stenosi lombare -questa la diagnosi- arrivò al punto da paralizzarmi la gamba sinistra e fortemente menomare la sensibilità alla gamba destra impedendo totalmente la deambulazione.
La stenosi è un restringimento del canale midollare dovuto alla incontrollabile crescita di materiale osseo, tendineo e legamentoso, (normalmente risultante dal processo artrosico di invecchiamento osseo in età anziana). Viene così occluso parzialmente il canale vertebrale e vengono compresse le radici nervose; il tratto lombosacrale si modifica in modo irreversibile rendendo necessaria la rimozione del materiale occludente attraverso l’intervento.
Mi sono sottoposta nella primavera del 2009 al primo intervento di laminectomia e decompressione vertebrale, con l’obbiettivo della sola rimozione delle escrescenze occlusive, prospettato come il meno invasivo e più sicuro, ma l’esito si è rivelato di molto peggiorativo, degenerando in una dolorosa frattura vertebrale. Questa ha provocato il collasso della colonna lombosacrale ed un versamento meningeo che non solo amplificarono il dolore a livelli indescrivibili, a causa del nuovo stato infiammatorio post-chirurgico, ma determinarono la incapacità di restare seduta.
Così come un capitello privato della colonna sottostante non può sostenersi, similarmente ho sperimentato l’afflosciamento della colonna lombosacrale.
Potevo consumare i pasti solo inginocchiata, col supporto di alcuni bolster davanti all’addome e della sedia per i gomiti per alleviare la pressione del busto sui fianchi.
In questa fase della mia vita sono stata costretta alla semi-immobilità, sdraiata a letto con grande dolore e supporto indispensabile di potenti antidolorifici (con effetti collaterali quali difficoltà respiratoria, malfunzionamento dell’apparato digerente, rallentamento delle funzioni cognitive).
Vivevo la struggente frustrazione derivante da una sostanziale impotenza ed il “fare” che mi aveva contraddistinta nel raggiungimento di ogni traguardo fino ad allora sembrava mi guardasse silenzioso, anestetizzato e attonito, atterrito dalla incapacità di proporre soluzioni.
Nella solitudine, le parole “lo yoga insegna a curare quello che non deve essere sopportato e a sopportare quello che non può essere curato” risuonavano come un mantra che addolciva il pensiero del futuro.
La gravità della situazione ha richiesto ulteriori quattro interventi di stabilizzazione vertebrale, con ricostruzione, mediante inserzione di viti, gabbiette in titanio, placche di fissaggio e barre, sempre in titanio, di un impianto di sostegno allo scopo di dotare la colonna di un minimo di stabilità, requisito indispensabile per sedersi e camminare, attività che mi erano impedite da mesi.
Gli spazi vertebrali fissati e mantenuti dall’impianto ricreavano le basi per il formarsi del callo osseo ed il recupero della struttura di sostegno allo scheletro.
Le indicazioni mediche prevedevano, in alternativa al riposo, brevi passeggiate indossando sempre a sostegno un corsetto di plastica dalle clavicole all’osso pubico appositamente creato sulla mia conformazione fisica.
L’esperienza yoga nel recupero post operatorio
Ho iniziato a praticare tempi lunghi di supta tadāsana e śavāsana mentre refluivano ricordi di pratica applicate ora ad un corpo quasi morto ed indifferente ai comandi cerebrali.
In questa fase ho scoperto il collegamento tra sentire pazientemente i messaggi inviati dal mio corpo ed accettarne i limiti; ho nettamente individuato cosa non volevo accettare e quello che rifiutavo di ascoltare. Le istruzioni che avevano accompagnato le lezioni frequentate lentamente iniziarono ad inserirsi nelle azioni quotidiane; la memoria di quanto assistito e vissuto nelle classi mediche a Pune rafforzavano la convinzione che il mio “stato mentale” avesse incontrato negli insegnamenti di BKS Iyengar degli strumenti di azione differenti da quelli a cui lo avevo abituato e che l’esplorazione consapevole di piccoli movimenti poteva fornire un benessere non raggiungibile altrimenti.
Ho accolto le indicazioni della scienza e mi sono lasciata guidare dalla chirurgia medica per quella parte non risolvibile diversamente; ho frequentato soggiorni residenziali di fisioterapia rieducativa in centri spinali e centri specializzati nel dolore cronico, ma la pratica dell’Iyengar yoga, gli appunti e i supporti hanno costituito il bagaglio dal quale non mi son mai separata.
In questo periodo ho fatto esperienza, come paziente post-operatoria, delle unità spinali con soggiorni residenziali di recupero fisioterapico a Lione, Londra e Milano e ho potuto allargare lo sguardo ad una variegata realtà di patologie ortopediche molto gravi e invalidanti: disformismi congeniti della colonna in età pediatrica, patologie vertebrali di giovani atleti o di soggetti sedentari in età più avanzata.
Ho notato una differenza abissale nell’approccio alla disabilità tra gli adulti nel mio reparto, rassegnati alla sofferenza, e i più piccoli, pronti a gioire al minimo momentaneo segnale di miglioramento: come se i più giovani possedessero la naturale consapevolezza del “qui ed ora” che lo yoga insegna.
Allo stesso modo, devo sottolineare la sostanziale serenità di fondo che ha caratterizzato le mie attività quotidiane durante i soggiorni ospedalieri, ben diversa dallo stato emotivo degli adulti che mi circondavano. Al termine dei tre mesi di fisioterapia residenziale, l’equipe medica è stata sorpresa non solo dai risultati ottenuti in termini di valori fisici, confrontati con parametri oggettivi di misurazioni e prestazioni, ma anche in termini di benessere globale, riscontrando sì la presenza di un grave stato ansioso e compatibile con il trauma dei 5 interventi affrontati in un anno senza riscontrare invece alcun segno di depressione, contrariamente alle enormi percentuali di casi in questi reparti. Alcuni medici e fisioterapisti si sono avvicinati con curiosità e interesse ai libri di BKS Iyengar sul mio comodino.
Imparare a curare
Lo stesso giorno delle dimissioni ho deciso di proseguire il percorso studiando e praticando in lezioni individuali dove, attraverso piccole sequenze sempre diverse adattate alle condizioni giornaliere, ho recuperato in meno di due anni la sensibilità totale della gamba destra e parziale della gamba sinistra.
Ogni āsana è stata sezionata e ridotta ai minimi termini per consentirmi di trarre un beneficio reale e un lento ma solido recupero sia della attività deambulatoria sia della autonomia di gestione delle incombenze quotidiane.
Inizialmente troppo fragile per realizzare qualsiasi posizione in piedi, la pratica di questo periodo si è concentrata sull’ottenimento della distensione delle aree operate (la schiena e diverse zone di addome, pube e fianco):
Prima fase (sei mesi)
Da śavāsana, con la testa e l’intero busto sostenuto, polpacci su una sedia, gradualmente si inseriscono cinture alle cosce e ai polpacci, coperta arrotolata sull’addome. Quindi si iniziano ad accavallare lentamente le gambe (come supta garuḍāsana) e a piegare le ginocchia verso il petto (pavana muktāsana)
Seconda fase (fino a due anni)
Supta badda konāsana con due cinture, cosce sostenute e piedi sulla sedia. Poi gradualmente la sedia viene sostituita da un bolster e si ripetono le posizioni precedenti.
jaṭara parivartanāsana con due bolster o coperte arrotolate
anantāsana contro il muro, coperta arrotolata e cinture
supta pādānguṣṭāsana gamba sotto piegata e gamba alzata appoggiata al muro
adhomukha svanāsana in ginocchio, con le corde agli inguini e bolster a totale supporto del torace e addome
tadāsana e urdhva hastāsana con i supporti
śavāsana in posizione prona supportato
In questa fase, l’effetto immediato degli āsana praticati ha avuto l’esito di momenti benefici privi di dolore che, sebbene non molto duraturi, nutrivano la mente con nuove esperienze: la sottrazione momentanea dal dolore e la contezza del raggiungimento di questo risultato. Una volta acquisita nuovamente la capacità di eseguire tadāsana senza supporti, è iniziato il lavoro di stabilizzazione della spina dorsale in vari āsana. Di particolare significato in questa fase la pratica di bharadvājāsana sulla sedia, con cinture nella parte alta delle cosce. Questo ha consentito di allungare la parte bassa dell’addome e recuperare la mobilità del sacro dove c’era grande rigidità a causa degli impianti inseriti negli interventi. La pratica di ardha chandrāsana con la schiena al muro e il piede al muro ha consentito di migliorare la mobilità del bacino sperimentata nella posizione precedente e di sentire l’allungamento della colonna fino alla zona cervicale.
Imparare ad accettare
I miglioramenti nel tempo sono diventati talmente tangibili da consentirmi di riprendere l’insegnamento nelle classi principianti, senza aver fatto i conti con la stanchezza del mio corpo debole e provato, per cui l’esperienza si è dovuta interrompere. Ho frequentato lezioni di preparazione al sostenimento degli esami successivi al livello Introductory, illudendomi che migliorare la mia conoscenza come insegnante possa aiutare anche la mia pratica da allieva
La pratica del prāṇāyāma continuava ad essere talmente dolorosa a causa della rigidità della gabbia toracica da ridursi a mera osservazione del respiro in śavāsana che, pur nella brevità delle sedute, manteneva il pensiero concentrato e tranquillo.
Ho compreso di aver attuato solo uno dei due principi guida: imparare a curare quello che non doveva esser sopportato ad ogni costo. Tuttavia non ero ancora pronta all’ accettazione dello stato presente. che non poteva essere modificato. Il titanio, inserito nelle operazioni, che fa parte di me ora ha la stessa dignità di esser ascoltato del mio sistema osseo “vero”.
Imparare ad accettare quello che è successo e non può più essere mutato ha determinato l’inizio di una fase successiva. Nella fase del covid e seguente, il silenzio diffuso da un lato e l’uso delle tecnologie per l’apprendimento a distanza, prima impensabile nel campo dello yoga, hanno fatto sì che la forzata solitudine ed il confinamento prolungato siano divenuti momenti di riflessione e studio, con l’affiorare di consapevolezze più mature.
Ad un anno dal sesto intervento, una pratica studiata con cura, con l’aiuto di vari supporti ma soprattutto di cinture per agevolare la distensione e la trazione, mi permettevano poco per volta di riappropriarmi del mio essere come unità, e non come insieme di perni e viti inseriti in una struttura indebolita:
supta tadāsana supportato con cinture per distendere le gambe a aiutare la percezione del sacro e dell’addome
supta urdhva hastāsana con pesi sui gomiti per correggere l’iper estensione
tadāsana al cavallo con mattone nella parte alta delle cosce e tra le ginocchia. Pesi sui metatarsi
utthita hasta padāsana al cavallo con cinture per aiutare a separare le cosce e stabilizzare il bacino
prasārita pādottānāsana totalmente supportato con coperte arrotolate per rialzare le ascelle e dare spazio allo sterno
upaviṣṭha koṇāsana rivolta verso il muro, sempre con le cinture
setubandha sarvāṅgāsana con bolster e gambe molto divaricate per allargare la zona del sacro.
Oggi, un anno dopo il sesto intervento alla schiena, non mancano momenti di sconforto in cui il dolore fisico pare riprendere il sopravvento sul controllo del corpo e della sua funzionalità, dove l’ansia che genera un potenziale instabile equilibrio potrebbe condizionare la fiducia nel potere della pratica. Il ritorno delle dieci dita dei piedi sul tappetino nutre, nella disciplina della pratica attraverso un eterno viaggio dalle estremità del corpo alle profondità del centro, il raggiungimento del benessere ben individuato dalle parole di Iyengar:
“Āsana o posizione dona fermezza, salute e leggerezza al corpo. Una posizione ferma e piacevole crea equilibrio mentale e previene l’incostanza della mente…Colui che pratica gli āsana sviluppa agilità, equilibrio, resistenza e aumenta la propria vitalità…Ma la loro prima importanza sta nel fatto che esse allenano e disciplinano la mente.”(Iyengar 2003, p.51)
Sono grata a tutti gli insegnanti che mi hanno seguita ed aiutata nel mio percorso: Gabriella Giubilaro (Firenze), Maria Paola Grilli (Torino), Amit Pawar (Londra), Mira Mehta (Londra), Amparo Rodriguez (Londra), Chiara Travisi (Milano).
Le fotografie sono di Isabella Resta (archivio AIYI).
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S.Metha, M. Metha, S.Metha, Yoga: The Iyengar Way, Dorling Kindersley, 1990.
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