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Sadhana - Filosofia

07/04/2023

Il clima "fuori" e il clima "dentro di noi": trasformazione, negoziazione e adattamento nella pratica di Iyengar Yoga

di Chiara Travisi

 

 

Secondo Eraclito [cfr.PLAT, Cratyl, 402 a], nello stesso fiume non è possibile scendere due volte, né toccare due volte una sostanza mortale nello stesso stato. Ma per l’impeto e la velocità del mutamento “si allenta e di nuovo si raccoglie”, “si avvicina e si allontana” (I Presocratrici, p.215).

 

Indipendentemente da quanta esperienza si abbia come praticanti di yoga, la continua dinamicità e mutevolezza delle condizioni dell’ecosistema esterno con cui interagiamo (ambientale, sociale, culturale e personale) è un aspetto fondamentale che va sempre tenuto presente nella propria pratica.

Non soltanto cambia il clima “fuori di noi”, ma anche il clima “interno” al praticante varia incessantemente per adattarsi alle condizioni del clima “esterno”.

Il clima “fuori di noi” è assai di più del variabile tempo meteorologico e della stagionalità: è l’insieme di tutto ciò che si trasforma intorno a noi, sia da un punto di vista ambientale sia da un punto di vista sociale, culturale e personale.
Possiamo concepirlo come un “ecosistema esterno” in senso ampio. Cambia la luce, cambiano le temperature, cambia l’umidità, cambiano gli ambienti (altitudine, latitudine, vegetazione, ecc.) e le stagioni, e di questo siamo facilmente coscienti. Altrettanto cambiano le circostanze sociali, culturali e personali. Tuttavia, se siamo abituati ad osservare quotidianamente la mutevolezza climatica ed ambientale, assai più difficile invece è essere sempre consapevoli di come altri elementi di perturbazione che ci giungono dall’esterno influiscano su di noi. Tendiamo ad esempio a sottostimare, o non vedere affatto, l’effetto del mutare delle sollecitazioni sociali e culturali attorno a noi, anche se esse sono sempre in atto.

Nell’arco di pochi mesi, ad esempio, abbiamo attraversato la fine di una pandemia e l’inizio di una guerra, ma quanti si sono soffermati a vedere l’effetto di questi eventi lontani sul nostro “clima interno”? Cambiano le condizioni sociali o culturali e cambiano naturalmente anche le routine e le incombenze quotidiane da gestire (lavoro, tempo libero, famiglia ecc.). Una riunione di lavoro ci rende ansiosi, un incontro con un amico ci rallegra, un infortunio ci obbliga a prendere una pausa, una gravidanza o l’invecchiamento ci trasforma come esseri viventi, il nostro ruolo sociale ci impone determinate incombenze, e così via.

 

Prendere coscienza delle trasformazioni
Prendere coscienza delle trasformazioni che caratterizzano il nostro ecosistema “esterno” in senso lato (ambientale, sociale, culturale e personale) è estremamente importante nella nostra pratica yoga personale (in sanscrito, sadhana). Ogni fattore di variabilità esterna può essere considerato un vincolo, un elemento che il praticante non può trascurare ma con cui viceversa deve negoziare costantemente durante la sua sadhana – e con discriminazione (in sanscrito, viveka) adattandola e adattandocisi.

Trasformazione, negoziazione e adattamento sono tre processi correlati e costanti.

L’adattamento, attraverso la negoziazione con le mutevoli circostanze esterne, genera quello che qui chiamiamo il clima “dentro di noi”: la nostra omeostasi interna, il nostro essere pronti a cambiare continuamente (consciamente o inconsciamente) come ciò che ci circonda, alla continua ricerca di un equilibrio sempre dinamico che modula il nostro ecosistema interno (muscolo-scheletrico, organico, sistemico, biochimico, cognitivo, emotivo, ecc.).

In altri termini, ci si deve sempre accordare con un “clima esterno” e con un “clima interno” a noi, con un ecosistema interno frutto dell’adattamento all’ecosistema esterno. Nel contatto tra esterno e interno non possiamo che trasformarci, negoziare e adattarci meglio che possiamo.

I cambiamenti che si devono gestire si rapportano a differenti scale temporali: annuali, mensili, settimanali, giornaliere e persino più piccole. Nella pratica giornaliera si può constatare che ogni singolo giorno le sensazioni del corpo sono diverse dal giorno precedente. Si è magari abituati a valutare le trasformazioni su scala giornaliera (o mensile, o stagionale o annuale) ma la trasformazione è in realtà una costante e un continuum della vita biologica che evolve senza soluzione di continuità adattandosi al “clima esterno” e che a sua volta determina il “clima interno”.

 

 

Le evoluzioni di prakṛti: la perenne mutevolezza della realtà
La trasformazione non è solo un’evidenza biologica ed ecologica ma soprattutto un principio fondamentale secondo l’ontologia della filosofia saṃkhyā. In sanscrito, il concetto è espresso dal termine pariṇāma con riferimento alla evoluzione continua di prakṛti, tutta la materia che costituisce il così detto mondo reale (Giubilaro 2022). Anche Patañjali dedica un lungo sūtra (YS, II.15) a questo importante concetto mettendolo direttamente in relazione con la capacità di discriminare, viveka, e con la possibilità di colui che discrimina (vivekin) di evitare il dolore non ancora giunto (YS, II.16).
La perenne mutevolezza della realtà (prakṛti), generata dal movimento delle vorticosità (vrttvirodha) dei suoi costituenti (guna), genera disagio a causa delle trasformazioni incessanti (pariṇāma) delle condizioni raggiunte dal vivente, siano esse di agio o di disagio. Si riportano i sūtra in questione con le traduzioni di BKS Iyengar e di Federico Squarcini.

 

YS, II.15 pariṇāma-tāpa-saṁskāra-duḥkhair guṇa-vṛtti-virodāc ca duḥkham eva sarvaṁ vivekinaḥ

L’uomo saggio sa che, a causa delle fluttuazioni, delle qualità della natura e delle impressioni subliminali, persino le esperienze piacevoli sono toccate dal dolore; e allora si tiene lontano da esse. (Iyengar, 1997, p.129).

[Ma] per colui che [realmente] discrimina (vivekin) tutto [ciò] (sarva), certamente, è disagio (duḥkha), in quanto [sempre determinato dall’ondivago] diverbio delle vorticosità dei costituenti (guṇavṛttivirodha) e dai conseguenti disagi generati dalla continua trasformazione (pariṇāma) [delle condizioni raggiunte, gioiose o penose che siano], dall’arsura (tāpas) e dalle pulsioni inerziali (saṃskāra) (Squarcini, 2015, p.17).

YS, II.16 heyaṃ duḥkham anāgatam

Le sofferenze che non sono ancora venute possono e devono essere evitate (Iyengar, 1997, p.130).

[Colui che discrimina, dunque, sa che] è il disagio non ancora giunto che va eliminato (Squarcini, 2015, p.17).

È proprio nel contatto (saṃyoga) tra interno ed esterno, tra dentro e fuori, tra soggetto e oggetto, tra vedente e visto (draṣṭṛ e dṛśya) che si determina la causa del possibile disagio futuro:

YS, II.17 draṣṭṛ-dṛśyayoḥ saṁyogo heya-hetuḥ

La causa della sofferenza è l’associazione o l’identificazione del veggente (ātmā) con il visto (prakṛti); il rimedio sta nella loro dissociazione (Iyengar, 1997, pp.13-131).

La causa (hetu) [del sopravanzare] di ciò che va eliminato (heya) [ossia il disagio non ancora giunto] è il contatto (saṃyoga), [che pone in essere le figure] ‘vedente-visto’ (draṣṭṛ e dṛśya) (Squarcini, 2015, p.17).

Da qui discende l’importanza dell’adattamento come processo di negoziazione a fronte di una valutazione di cosa muta e si trasforma attorno a noi. Trasformazione, negoziazione e adattamento sono quindi alla base della nostra vita biologica così come dovrebbero essere principi centrali nella nostra esperienza di praticanti e insegnanti di yoga, evitando un atteggiamento dogmatico e una pratica meccanica.

 

 

La capacità di discriminare (viveka)
Nel contatto (samyoga) del soggetto (draṣṭṛ) con l’oggetto esterno (dṛśya), attraverso i nostri organi di senso, ognuno di noi introietta la mutevolezza esterna e cerca di gestirla efficientemente per non perdere la propria omeostasi, il proprio equilibrio, per capire il fuori ed adattare il dentro in modo resiliente.
Molti di questi processi di adattamento avvengono indipendentemente dalla nostra volontà e non ne siamo affatto consapevoli perché attengono al sistema nervoso autonomo neurovegetativo. La regolazione della pressione sanguigna, della glicemia, della produzione ormonale, la digestione e il sonno così come gran parte delle funzioni dei nostri organi vitali (cuore, polmoni, fegato, stomaco, reni, ecc.) sono al di là della nostra possibilità di intervento diretto.
Altre funzioni viceversa posso essere gestite volontariamente e determinano quelli che generalmente chiamiamo gli “stili di vita”: come ci nutriamo, quanto dormiamo o muoviamo, oltre naturalmente tutte le funzioni legate alla cognizione superiore: linguaggio, capacità di astrazione, in altri termini tutto ciò che è legato al minding, il plesso della cognizione.

Tuttavia, la nostra pratica corporea ci aiuta a diventare attenti e sensibili ai segnali interni che giungono in risposta a stimolazioni esterne.
Giocando sul terreno del corpo, inteso come ricettacolo del vissuto individuale (ecologico, sociale, culturale, personale, ecc.), rivolgiamo il nostro sguardo (vista, olfatto, udito, tatto, gusto) al dentro (pratyāhāra) e alleniamo la nostra cosiddetta interocezione, cioè la percezione del dentro (Craig, 2015). Così, al mutare del clima “esterno” e del clima “interno”, diventiamo più capaci di rispondere alla domanda, semplice ma terribile allo stesso tempo: “Come sto? Come mi sento adesso? Cosa posso fare per me?”

Sappiamo che i nostri mezzi di conoscenza (pramana, YS, I.5) sono fallaci, imperfetti. Per le fonti testuali dell’ascetismo antico indiano è un dato di fatto. Così come vorticano i costituenti (guṇavṛttivirodha), altrettanto vorticano le nostre capacità cognitive e discriminatorie (cittavrtti). Tuttavia, giocando sul terreno del corpo – che, in quanto a-priori comune a tutti i viventi, può bypassare la mediazione linguistica (discorsiva, meta-rappresentativa e astrattiva), che confonde le percezioni dirette – la nostra pratica corporea (embodied: ovvero il corpo come sede del plesso della cognizione, citta) ha soprattutto la possibilità di diventare viveka-darśana: uno sforzo per far sorgere uno sguardo discriminativo e non-meccanico, contro l’agire per abitudine o l’agire in forza di percezioni fallaci rispetto alla mutevolezza esterna.

L’abitudine (abhyāsa), del resto, è sempre in agguato anche quando ci troviamo sul tappetino a praticare. Più il praticante diventa esperto, anzi, più è a rischio di una pratica meccanica poiché schemi corporei prima non famigliari diventano la nuova abitudine e il corpo (come supporto, ālambana, all’osservazione discriminante) perde la sua presa sulla cognizione. Ecco perché la triade trasformazione-negoziazione-adattamento è così importante.

 

Tenere conto di “adressals” e “gravities”
Questo concetto è stato espresso con grande enfasi da Prashantji durante lo Yoganusasanam del Dicembre 2018 in occasione del Centenario dalla Nascita di Guruji (1918-2018).
Secondo Prashantji, la pratica e l’insegnamento non possono essere dogmatiche ma devono sempre adattarsi alle mutevoli circostanze esterne.
Il praticante (e l’insegnante) deve identificare le condizioni associate alle circostanze e quindi definire le priorità della pratica quotidiana (o dell’insegnamento).

Prashantji chiamava le condizioni vincolanti esterne con un neologismo, gli “adressals”: ovvero le cose da affrontare, dall’inglese to address (occuparsi di, affrontare, far fronte a). Dati i propri adressals, ognuno deve applicare un processo di negoziazione e quindi modulare, adattare di conseguenza la propria pratica. In altre lezioni, lo stesso concetto è stato da lui sviluppato parlando di “gravities”, ovvero declinando il principio di trasformazione-negoziazione-adattamento, con particolare riferimento alle condizioni sociali esterne imposte dalle convenzioni e dai ruoli che rivestiamo all’interno del nostro nucleo famigliare o contesto sociale. È quindi una gravity essere “madre di”, “marito di”, “figlio di”, “impiegato di”, “presidente di”, e così via, e anche di questi fattori esterni dobbiamo prendere coscienza.

Questa riflessione sul clima “fuori di noi” e il clima “dentro di noi” suggerisce quindi ancora una volta di usare il terreno del corpo per una pratica con finalità discriminativa e adattativa e non per cristallizzare forme iconiche, come del resto Guruji, Geethaji e Prashantji ci hanno chiaramente indicato con il loro esempio ed insegnamento.

 

 

Lo yoga come mezzo di adattamento, auto-regolazione e resilienza
Con riferimento agli effetti di quello che è stato chiamato clima “esterno”, gli yog-asana e il prāṇāyāma permettono di entrare in relazione con il clima “interno”.
Yog-asana e prāṇāyāma hanno la caratteristica unica di fungere da interfaccia, non solo tra esterno ed interno, ma anche tra aspetti somatici e cognitivi, creando un contesto davvero unico per toccare, seppur indirettamente, parti di noi che altrimenti rimarrebbero inevitabilmente celate e distanti.
Ecco quindi, ad esempio, che un lavoro sul diaframma modula il sistema nervoso autonomo neurovegetativo (ANS), l’estensione delle vertebre toraciche stimola i recettori del sistema nervoso ortosimpatico, le posizioni capovolte regolano le funzioni endocrine, l’uddiyana kryia agisce sugli organi addominali, sanmukhi mudra influisce sulla produzione di onde cerebrali gamma e così via.
L’enorme patrimonio di insegnamenti dell’Iyengar Yoga su yog-asana e prāṇāyāma consente di raggiungere, stimolando e adattando alle necessità, i nostri sistemi corporei e ormai un’ampia letteratura scientifica corrobora quanto fino a poco tempo fa erano solo poco più che deduzioni frutto dell’esperienza diretta dei praticanti.

Tra la vasta letteratura disponibile sulle capacità dello yoga di migliorare le risposte adattative (ad esempio sullo stress: Pascoe and Bauer, 2015), vorrei concludere citando un recente articolo particolarmente rilevante per i ragionamenti fin qui fatti. Si tratta di un lavoro di Sullivan et al. con la partecipazione di S.W. Porges, autore della famosa teoria polivagale sulle modulazioni del sistema nervoso neurovegetativo in funzione di stress esterni (PVT, Porges 2003, 2009). Gli autori analizzano specificamente l’utilizzo di pratiche yoga come mezzo e strumento di auto-regolazione (self-regulation) e resilienza (resilience).

Secondo gli autori, lo yoga (in quanto pratica “mind-body”) enfatizza la coltivazione di consapevolezza somatica. Si parla quindi di propriocezione, capacità di percepire il corpo nello spazio, fermo o in movimento, attraverso gli organi di senso meno distali, ovvero, indipendentemente dalla vista, attraverso l’ascolto di sensazioni tattili e legate all’orecchio e di interocezione, cioè percezione del dentro, ovvero delle informazioni che derivano dai vari sistemi corporei e che ci consentono di avere una rappresentazione istantanea della nostra condizione fisiologica complessiva. Queste due facoltà sono combinate con le qualità meditative di non-giudizio, non-reattività, curiosità e accettazione al fine di ingaggiare un processo di ri-valutazione degli stimoli.
Mentre il praticante è incoraggiato a coltivare la propria consapevolezza dei fenomeni e degli stimoli dal contesto corpo-mente-ambiente (body-mind-environmental context: BME) a cui è sollecitato durante la pratica, esso è costantemente teso ad un processo di re-interpretazione e ri-orientamento di tali stimoli, così che vi sia comprensione (gli autori usano il termine insight, da intendersi qui come il nostro viveka) e un rinforzo di adattabilità, regolazione e resilienza (si vedano anche Mehling et al., 2011; Farb et al., 2015). Lo yoga in particolare coltiva la capacità di “bounce back” (rimbalzo reattivo) e adattamento rapido in risposta a circostanze avverse o stressogene, così che le risorse psico-fisiologiche siano conservate.
Gli autori propongono un particolare modello interpretativo di questi meccanismi di autoregolazione, per i cui dettagli rimando direttamente alla lettura dello studio. Vorrei invece soffermarmi sulle conclusioni dello studio di Sullivan et al. (2018), come ulteriore incoraggiamento alla pratica: sempre viva e nutrita dall’idea di auto-regolazione, adattamento e resilienza. Vi lascio quindi con alcuni frammenti presi dalle conclusioni di questo studio (Sullivan et al., 2018, pp. 13):
Yoga therapy is proposed to facilitate eudaimonic [stato di buono spirito o felicità] well being with its many effects for physical, mental and behavioral health for diverse populations through the building of self-regulatory skills and cultivating resilience of the system. […]

[…] It is when yoga is practiced and understood as a cohesive and comprehensive system that the benefits for self-regulation and resilience may be realized. […]

As one learns new responses to potential BME stressors, he or she may experience greater physiological, psychological and behavioral health and well- being.

La terapia yoga viene qui proposta [come strumento] per facilitare il raggiungimento di una condizione di benessere eudamonico [stato di buono spirito o felicità] con i suoi molteplici effetti per la salute fisica, mentale e comportamentale per diverse popolazioni attraverso la costruzione della capacità di auto-regolazione e la coltivazione della resilienza del sistema. […]

[…] E’solo quando lo yoga è praticato e compreso come sistema coeso e completo che si possono realizzare i benefici per l’auto-regolazione e la resilienza. […]

Quando si apprendono nuove risposte a potenziali stimoli corpo-mente-ambiente (BME), allora il [il praticante] può sperimentare maggiore salute e benessere fisiologico, psicologico e comportamentale.
Se non l’avessero scritto loro in qualità di ricercatori e scienziati, lo avremmo forse potuto scrivere noi, da semplici praticanti di Iyengar Yoga. Buona pratica a tutti.

 

Referenze immagini

Le fotografie sono tratte dalla Mostra: Yoga: The Art of Transformation, San Francisco/Cleveland 2014

(https://enfilade18thc.com/2013/10/20/exhibition-yoga-the-art-of-transformation/)

 

Bibliografia

Craig, A. D, How Do You Feel? An Interoceptive Moment with Your Neurobiological Self. Princeton, NJ, Princeton University Press, 2015.

Farb, N., Daubenmier, J., Price, C. J., Gard, T., Kerr, C., Dunn, B. D., et al., Interoception, contemplative practice and health. Front. Psychol. 6:763, 2015.

Gabriella Giubilaro, Elementi del sāṅkhya e l’evoluzione della natura e confronto fra i termini usati nel sāṅkhya e nello yoga, Sadhana Blog, 2022. (https://www.iyengaryoga.it/pagina/52-sadhana-filosofia)

BKS Iyengar, Gli antichi insegnamenti dello yoga. I Sutra del grande maestro Patañjali, Mediterranee, 1997.

Mehling, W. E., Wrubel, J., Daubenmier, J. J., Price, C. J., Kerr, C. E., Silow, T., et al., Body awareness: a phenomenological inquiry into the common ground of mind-body therapies, Philos. Ethics Humanit. Med. 6:6. doi: 10.1186/1747- 5341-6-6, 2011.

Patañjali. Yogasūtra, a cura di Federico Squarcini, Torino, Einaudi, 2015.

Pascoe, M. C., and Bauer, I. E., A systematic review of randomised control trials on the effects of yoga on stress measures and mood, J. Psychiatr. Res. 68, 270–282, 2015.

Porges, S. W., The Polyvagal Theory: phylogenetic contributions to social behavior, Physiol Behav. 79, 503–513, 2003.

Porges, S. W., The polyvagal theory: new insights into adaptive reactions of the autonomic nervous system, Cleve. Clin. J. Med. 76, S86–S90, 2009.

I Presocratici. Testimonianze e frammenti. Tomo Primo, Bari, Laterza, 2004.

Sullivan M.B., Schmalzl M. E., Moonaz S., Noggle Taylor, J. and Porges S.W. , “Yoga Therapy and Polyvagal Theory: The Convergence of Traditional Wisdom and Contemporary for Self-Regulation and Resilience”, Frontiers in Human Neuroscience, February 2018 | Volume 12 | Article 67, 2018.

Pascoe, M. C., and Bauer, I. E., A systematic review of randomised control trials on the effects of yoga on stress measures and mood, J. Psychiatr. Res. 68, 270–282, 2015.

 


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