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Sadhana Filosofia

17/09/2024

I Kleśa

di Marco Luigi Proia

 

 

Oṁ namo bhagavate vāsudevāya;

Mi inchino a Dio Vāsudeva (Kṛṣṇa).

gururbrahmā gururviṣṇuḥ gururdevo maheśvaraḥ

guruḥ sākṣāt parabrahma tasmai śrī gurave namaḥ

Il guru è Brahma, il creatore, il guru è Vishnu il preservatore.

Il guru è Shiva il distruttore, il guru è il supremo Brahaman, il signore tra tutti,

io mi inchino al supremo guru.

 

Gli ostacoli, le avversità e le tribolazioni nel cammino dello yoga possono essere eliminati in gran parte con l’aiuto di un guru, un maestro spirituale che insegna un modo di vivere, e non semplicemente come guadagnare i mezzi per sopravvivere; trasmette la conoscenza dello Spirito e colui che riceve tale sapere è un śiṣya, un discepolo. (B.K.S. Iyengar in Teoria e pratica dello yoga, pag. 29)

 

Per correr miglior acque alza le vele/omai la navicella del mio ingegno/che lascia dietro a sé mar sì crudele

(Dante, Divina Commedia, Purgatorio I.1-3)


 

Kleśa è termine sanscrito che in italiano è tradotto come: afflizioni, ostacoli, fonti di sofferenza, che possono rallentare o impedire al discepolo, al praticante della disciplina yogica, di ottenere il samādhi (l’immersione meditativa, la profonda contemplazione di Sé) e raggiungere gli stati superiori per l’accesso all’emancipazione.

Patañjali nel suo famoso trattato Yogasūtra (indicato di seguito con la sigla YS) li descrive con ammirevole precisione nel sādhana pāda), in sette sūtra. Desidero con questo articolo offrire una concisa disamina degli impedimenti al samādhi nell’ordine in cui sono presentati nel testo di Patañjali, con riferimento ai commenti e al pensiero di Guruji B.K.S. Iyengar e altri commentatori che si rifanno alla tradizione Vedānta.

Offro questo breve studio ai piedi di loto dei miei guru, a tutti coloro che sono interessati ad approfondire le cause degli ostacoli, delle sofferenze, nella prospettiva dello yoga darśana.


 


II.3 avidyāsmitārāgadveṣābhiniveśāḥ kleśāḥ

Gli ostacoli (al samādhi) sono l’ignoranza, l’ego, l’attaccamento, l’avversione e la paura della morte

In questo sūtra l’autore presenta l’elenco degli ostacoli e tratterà poi i singoli kleśa.

Bangali Baba nella sua traduzione degli YS con il commento di Vyāsa riporta quanto segue: “…Le afflizioni indicano la perversione delle cognizioni. Questi (kleśa), quando sono in azione, rafforzano le influenze dei guna (le tre qualità della natura), favoriscono la produzione del karma (eterna legge di causa ed effetto) e, attraverso la reciproca interazione, portano alla fruttificazione delle azioni compiute (karma accumulato)” (Bryant, p.181).

Questa elencazione di ostacoli è quindi finalizzata ad introdurre l’argomento e anche a stabilirne l’intrinsecità variamente produttiva di effetti negativi in rapporto all’emancipazione, scopo del percorso yogico.

Le persone sotto l’influsso delle vṛtti kliśṭa, ovvero gli stati mentali mutevoli ostacolanti, hanno una visione di sé e, per conseguenza del mondo, distorta, ma possono decidere di modificare questa situazione; a questo proposito B.K.S: Iyengar scrive: “… lo stile di vita odierno rende più agevole la comprensione dei fattori di impedimento. Sia i kleśa che gli antarāya (impedimenti, vedi YS, I.30), sono stati d’animo consci, che motivano un individuo a trovare il modo di rimuoverli… si ripercuotono prima sul corpo e poi sulla mente” (B.K.Ṣ Iyengar, L’essenza degli yoga sūtra, p. 93).

Nella Bhagavadgītā, allo śloka III.36, Arjuna chiede a Kṛṣṇa: “O discendente di Vṛṣṇi, che cosa spinge una persona a peccare anche contro la sua volontà, come se vi fosse costretta?” (La Bhagavadgītā così com’è, pp.156-157).

Credo sia esperienza più o meno comune trovarsi in situazioni che spingono ad agire sotto l’influsso di desideri o pensieri che, una volta meglio considerati, ci farebbero fare autocritica; a volte vorremmo aver agito diversamente, qualcosa dentro di noi ci dice che non abbiamo operato per il meglio. Ciononostante dobbiamo raccogliere i frutti delle nostre azioni poiché non sempre siamo in grado di riparare gli errori compiuti. La domanda conseguente è, come porre rimedio a tutto ciò? Come procedere nel perfezionamento di noi stessi? Siamo veramente costretti a commettere errori nel relazionarci al Tutto?

Lo yoga è la scienza dell’azione perfetta, l’azione che non genera conseguenze, positive o negative, come ben spiegato da Kṛṣṇa, Dio, la Persona Suprema, nella Bhagavadgītā ad esempio nello śloka II.50:

buddhi-yukto jahātīha ubhe sukṛta-duṣkṛte , tasmād yogāya yujyasva yogaḥ karmasu kauśalam

che tradotto liberamente significa:

“La persona la cui intelligenza è collegata (al Sé) abbandona in questo mondo stesso i risultati buoni o cattivi (dell’azione), impegnati dunque ad apprendere lo yoga, l’arte di agire”.

 


 

II.4 avidyā kśetram uttareṣām prasuptatanuvicchinnodārāṇām

L’ignoranza è il campo in cui crescono gli altri kleśa, sia allo stato dormiente, che debole, discontinuo o pienamente attivo.

Ora Patañjali inizia a definire il campo d’azione e lo stato, o grado di attivazione, degli ostacoli precedentemente elencati. In realtà l’ignoranza, avidyā è sia un ostacolo in sé, il principale come vedremo, sia il fondamento di tutti gli altri kleśa.

Come precisato nel sūtra II.2, il kriyā yoga serve ad indebolire i kleśa per consentire l’accesso al samādhi; dobbiamo conseguentemente concludere che in presenza di avidyā, l’ignoranza, è impossibile raggiungere gli stati superiori di coscienza e tantomeno l’emancipazione. Infatti l’ignoranza è definita da Vyāsa come: “il campo, kśetra, in cui possono germogliare i semi, ovvero tutti gli altri kleśa” (Bangali Baba, p. 31).

Per quel che riguarda i quattro stati di manifestazione dei kleśa elencati nel sūtra, essi possono essere: dormiente, debole, discontinuo o pienamente attivo. L’individuo che intraprende la disciplina dello yoga può essere all’inizio inconsapevole della propria natura spirituale, possiamo quindi ipotizzare che alcune tendenze siano già presenti in lui sotto forma di pulsioni discrete e senza un oggetto preciso ma comunque pronte a manifestarsi in varie forme, in funzione di tempo, luogo e circostanze. Infatti secondo la definizione di Vyāsa lo stato dormiente, prasupta, si ha “quando i kleśa si trovano nella mente allo stato potenziale, come un seme” e Śaṅkara precisa che “L’ignoranza non è mai dormiente poiché è causa e supporto degli altri ed è quindi sempre manifesta” (Bryant, pp.182-183).

Secondo B.K.S. Iyengar, in Aṣṭadaḷa Yogamālā, III, p.166 esiste un parallelo tra i kleśa e le malattie che affliggono il corpo: “Così come l’ignoranza è terreno fertile per i kleśa, lo stesso avviene per le malattie. Le afflizioni possono essere in uno qualunque dei quattro stati, in particolare dormiente, attenuato, alternato o attivo. Similmente, le malattie possono essere prasupta, nascoste o dormienti, ovvero che aspettano a manifestarsi nel corso del tempo, come un cancro ad esempio può essere diagnosticato ad uno stadio avanzato. Le malattie si possono trovare in uno stato attenuato, come un cancro diagnosticato precocemente, in una fase in cui è curabile con ottime possibilità di guarigione. Le malattie possono essere in uno stato alternato, una che emerge in primo piano mentre un’altra recede sullo sfondo. Ad esempio, la malattia principale potrebbe essere l’artrite ma il paziente soffre anche di malaria o diarrea che richiedono cure immediate. Infine la malattia può essere pienamente attiva con una predominanza assoluta come il cancro o l’AIDS”.

Tutto ciò a testimoniare l’importanza che la yogadarśana attribuisce alla consapevolezza spirituale; lo yogi realizzato, in questa prospettiva, è di fatto l’unico ad aver annullato in sé la produttività dei kleśa avendoli ‘bruciati’ o resi innocui attraverso la sādhana. Infatti B.K.S. Iyengar aggiunge: “Facciamo in modo da non limitare lo yoga semplicemente al ruolo di una terapia alternativa. Esso ha a che fare con bhava roga (la malattia esistenziale), la congiunzione tra jīva e ātma o prakṛti e puruṣa (vedi YS, II.17).

 


 

II.5 anityāśuci-duḥkhānātmasu nitya-śuci-sukhātma-khyātir avidyā

L’ignoranza è la convinzione che porta a credere che il sé, felice, puro ed eterno sia il non-sé, doloroso, non-puro e non-eterno.

La definizione di avidyā, la nescienza o ignoranza, è spiegata attraverso un elenco di elementi contrapposti, a rimarcare la differenza tra il sé spirituale, puruṣa, e il corpo, E.F. Bryant a questo proposito osserva che “aggiungendo il prefisso a- o duḥ- degli aggettivi della prima parte di questo sūtra allo stesso aggettivo nella seconda parte, Patañjali riesce a comunicare come la consapevolezza ordinaria sia l’esatto opposto della vera conoscenza. Confondere i due o identificare erroneamente l’uno con l’altro è avidyā”.

B.K.S. Iyengar in Yaugika Manas, p. 93 e ss., fa notare in proposito: “Senza dubbio, fino a un certo punto l’attaccamento al corpo è un dovere. Quando il corpo è allenato, armonioso e tonificato, allora è possibile mostrare distacco verso il corpo in quanto si cura da solo ed è un valido sostegno per la propria ricerca e per conquistare la conoscenza spirituale e la saggezza. Si dovrebbe ricordare che non si deve cadere nello stato di videha sthiti (YS, I.19) o stato di incorporeità perché questo conduce a prakṛti darśana e non a ātma darśana o nirbīja samādhi. Per questa ragione, io sento che il corpo non deve restare negletto ma deve essere purificato attraverso l’autodisciplina (tapas). Patañjali stesso suggerisce al sādhaka di purificare il corpo e i sensi attraverso tapas (YS, II.43)”.

La distinzione tra il Sé e il corpo è più estesamente delineata da Kṛṣṇa nei poetici śloka della Bhagavadgītā che vanno dal II.16 al II.25 a cui si rimanda per un approfondimento del tema. L’ edizione di A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupāda, la Bhagavadgītā così com’è, presenta gli śloka nella versione originale devanagari, con la traslitterazione, la traduzione parola per parola, la traduzione letteraria e il commento di un vero yogi e devoto del Signore.

 

II.6 dṛg-darśana-śaktyor ekātmatevāsmitā

L’ego è (ritenere che) la natura del vedente e la natura della facoltà strumentale del vedere siano la stessa cosa.

Il significato letterale di asmitā è “senso-dell’io-sono”, qui tradotto come ego a sottolinearne l’aspetto condizionante e ostacolante, in quanto kleśa. Secondo Vyāsa “il puruṣa è il potere della pura percettività e l’intelletto (buddhi) è il potere dello strumento di percezione. La confusione tra i due diventa l’afflizione denominata ego (asmitā)”. (Bangali Baba, p.34).

Secondo E.F. Bryant, buddhi è il primo strato prakrtico che avvolge puruṣa quindi i sensi veri e propri possono trasmettere le impressioni a puruṣa solo attraverso buddhi, quando si plasma nelle loro forme. Asmitā nel contesto presente dei kleśa è identificazione errata che considera la mente prakrtica e il corpo così come sono a causa dell’assenza di una vera capacità discriminante (sono donna, sono grasso, ho fame, sono un cane). Asmitā (chiamato ahaṅkāra nel sāmkhya) ha un ruolo chiave quindi nel determinare la scelta della mente di dirigere la propria attenzione su puruṣa o su prakṛti.

Capiamo quindi l’errore fondamentale di questa operazione che porta l’intelligenza a confondere i due piani: sul piano della prakṛti ogni cosa è eternamente mutevole e transitoria, identificarsi porta quindi a subire continue sofferenze per l’inarrestabile susseguirsi delle esperienze personali e vicende umane con cui ci si identifica (ad es.: nascita, malattia, vecchiaia, morte), mentre sul piano del puruṣa, il piano spirituale, non esiste lo spazio-tempo, ma solo l’eternità.

B.K.S. Iyengar in Vita nello yoga, p.152 insegna come trasformare la mente attraverso la meditazione: “Quando ci troviamo in uno stato di sonno profondo, perdiamo il nostro ego, il nostro ‘io-sono’. Ci dimentichiamo chi siamo e torniamo alla mente cosmica, eterna. C’è un breve momento nel risveglio, prima che la coscienza dell’io ritorni, in cui possiamo intravedere questo tranquillo stato di mancanza dell’ego. Dovrebbe essere la nostra guida. È una finestra naturale sulla mente meditativa in cui ci rendiamo conto di essere un tutt’uno e impariamo ad accettare questa verità. Quando l’ego è quiescente, il nostro stato di orgoglio diminuisce. Siamo ricettivi e diventiamo più comprensivi. Non veniamo offesi dagli affronti della vita. Veniamo isolati dall’ansia e dall’angoscia, sia all’interno che all’esterno”.

Ed ancora: “Nello stato di veglia il senso dell’Io (asmitā) funziona nel cervello, mentre nello stato di sonno profondo l’energia del cervello e il senso dell’Io discendono nel centro del cuore spirituale. Qui l’energia del cuore e la coscienza mantengono le loro funzioni. Nella meditazione, la spina dorsale deve essere mantenuta eretta, il corpo immobile, come una colonna e il potere dell’intelligenza, rilasciato dalle cellule cerebrali, discende verso il centro della coscienza. Allo stesso tempo, l’energia della consapevolezza del corpo è innalzata verso l’energia discendente del cervello per riceverla. Queste due azioni simultanee fermano i processi mentali, il continuo emergere di nuovi pensieri e consentono all’intelligenza di rivolgersi totalmente verso il centro della coscienza (antaḥkaraṇa), conducendo il sādhaka ad uno stato di compostezza, pace, calma, senza motivazioni e immobile così che il sé possa congiungersi con il Sé. E’ così che il sādhaka conosce la sua vera personalità – l’ātman, attraverso la disciplina dello yoga.”

 


 

II.7 sukhānuśayī rāgaḥ

L’attaccamento deriva da (esperienze di) felicità.

Il kleśa seguente all’ego e ad esso legato è l’attaccamento, rāga, che Vyāsa definisce così: “L’attaccamento è il desiderio, sete e bramosia per il piacere o per i mezzi per ottenerlo per una persona che conosce il piacere attraverso il ricordo di precedenti esperienze” (cfr Bangali Baba, YS, p. 34).

Edwin Bryant sottolinea nel suo commento agli YS che “La memoria è un elemento chiave in questo processo. Chi ha fatto esperienza del piacere nel passato lo ricorda e desidera ardentemente ripetere l’esperienza nel presente o nel futuro o avere i modi di farlo; ed è questo soffermarsi sulle esperienze passate che costituisce attaccamento”. Seguendo il filo dei sūtra fino a questo punto si evidenzia come ogni kleśa sia in qualche modo la conseguenza e il rafforzamento del precedente: dall’ignoranza nasce il falso ego, dal falso ego seguono l’attaccamento e, vedremo a breve, l’avversione.

B.K.S. Iyengar a questo proposito fa notare come gli āsana, se correttamente intesi, siano un potente strumento a disposizione del praticante (abhyāsa) per acquisire quel giusto distacco (vairāgya) che consente di raggiungere l’equilibrio tra gli opposti: “sukha significa felicità. È una parola incantevole. Tutti desiderano il piacere. La domanda è, la parola sukha va intesa da un punto di vista edonistico? No, certamente. La psicologia dell’uomo in cerca del piacere è legata al comfort. Egli vuole sukha. Patanjali fa riferimento a sukha come a un’afflizione. Rāga (attaccamento) è la conseguenza delle esperienze piacevoli e dveṣa (avversione) di quelle sgradevoli (YS, II.7-8).

Non si dovrebbero praticare gli asana con lo scopo di ottenere piacevoli sensazioni, o sukhatā. Se pratichiamo gli asana al solo fine dell’emancipazione, allora stiamo facendo yogāsana. Se invece gli asana sono eseguiti in cerca del piacere, allora le chiameremo bhogāsana. …è più facile convertire sukhāsana in bhogāsana che in yogāsana. In questo caso la caduta del praticante è certa.” Più avanti nello stesso articolo Guruji scrive: “Il praticante dovrebbe conoscere la differenza che esiste tra bhogāsana e yogāsana. Egli dovrebbe realizzare di stare in equilibrio sulla vetta di un monte. Dovrebbe restare immoto davanti ai piaceri degli āsana. Non si dovrebbe restare anestetizzati, in uno stato di sedazione mentre si eseguono gli āsana. Allora si perde la chiarezza e la sensibilità. L’eccesso deteriora la sensibilità, mentre prayatna śaithilya (rilassamento dello sforzo) porta luce e purezza e conduce verso ananta samāpatti (l’assorbimento nell’infinito). Spesso la fermezza mentale, la stabilità del corpo e l’acutezza dell’intelligenza sono neglette, dimenticate e l’aspirante vive uno stato di animazione sospesa. Gli āsana servono allo scopo di allontanarsi dalle coppie degli opposti perciò non si dovrebbe verificare l’effetto di rimbalzare tra i due estremi”. (Aṣṭadaḷa Yogamālā, II, p. 76 ss).

Importante anche citare in conclusione il commento di Hariharānanda: “Quando il desiderio si trasforma in cupidigia, si perde il senso di quello che è giusto o sbagliato, il senso morale. Più forte è la cupidigia, più la persona è portata a usare mezzi immorali per ottenere l’oggetto del desiderio” (Bryant, 2019, pp. 191,192).

 

II.8 duḥkhānuśayī dveṣaḥ

L’avversione deriva da (esperienze di) dolore.

Vyāsa definisce l’avversione così: “L’avversione è resistenza, tristezza, desiderio di annientare e rabbia, per un dolore o per le sue cause precedute dal ricordo del dolore, da parte di una persona che ha fatto esperienze passate di dolore” (Bangali Baba, p.34).

Nel commentare questo sūtra si può fare rimando al precedente in quanto l’avversione risulta la conseguenza dell’attaccamento e i due sono legati l’una all’altro come gli anelli di una catena.

Nel II capitolo della Bhagavadgītā, śloka 62 e 63, Kṛṣṇa spiega molto bene il funzionamento di questo processo: “Contemplando gli oggetti dei sensi nasce l’attaccamento, dall’attaccamento nasce la cupidigia e dalla cupidigia la collera. Dalla collera nasce l’illusione e dall’illusione la perdita della memoria. Quando la memoria è perduta, si perde anche l’intelligenza, e allora si cade nuovamente nella palude dell’esistenza materiale” (La Bhagavadgītā così com’è, pp.115-116).

Si comprende quindi che lo yogi deve sforzarsi in ogni modo di controllare i sensi per evitare di esserne travolto e cadere nuovamente della rete dell’illusione. La ricerca della gratificazione dei sensi non è contemplata nel percorso di emancipazione proposto da Patañjali. La pura gioia che scaturisce dalla realizzazione del Sé nullifica i piaceri materiali, lo yogi che addiviene al nirbīja-samādhi recide il legame con la prakṛti; il puruṣa è libero e realizza di esserlo sempre stato, è puro, autonomo e distaccato.

Infine Kṛṣṇa, rispondendo a una domanda di Arjuna, ammonisce, per così dire, dal ritenersi al di là di ogni pericolo prima di essersi situati sul piano spirituale: “Anche se si astiene dai piaceri materiali, l’anima incarnata conserva il gusto per gli oggetti dei sensi, ma se prova un gusto superiore trascenderà questa tendenza e resterà fissa nella coscienza spirituale” (BG, II.59).

 


 

II.9 svarasa-vāhī viduṣo ‘pi tathārūḍho ‘bhiniveśaḥ

La tendenza alla paura della morte condiziona anche il saggio; è una tendenza innata.

L’eterna auto-benedizione di tutti gli esseri viventi è: “possa io non cessare di esistere, possa io vivere in eterno”, e una simile idea non può emergere se non si è precedentemente sperimentata la morte. Inoltre, da ciò può essere inferita l’esperienza di precedenti nascite; quest’afflizione è il tenace desiderio di vivere (la paura della morte). Vyāsa definisce così l’istinto di autoconservazione o attaccamento alla vita (Bangali Baba, p.34).

Abhiniveśaḥ, l’attaccamento alla vita e la conseguente paura della morte è il più sottile dei kleśa, condiziona tutti gli esseri viventi, dal più minuscolo e semplice al più evoluto; secondo Patañjali condiziona anche il saggio, che pur avendo ben compreso che la vita incarnata ha un inizio e una fine, ha paura della propria fine.

Che cosa è la morte? Si può ignorare la morte? Possiamo vivere pienamente senza aver fatto i conti con l’attaccamento per la vita e la paura della morte? Chi è che muore? Questo kleśa suscita molte domande e pensieri contrastanti, domande che hanno riguardato tutta l’umanità fin dalle origini. Risposte a queste domande sono state date nella storia dell’uomo dalla religione, dalla filosofia e più recentemente dalla scienza, e ancora oggi, al di là di omologazioni e conformismi vari, disponiamo di punti di vista differenti al riguardo.

Il punto di vista che Patañjali espone nella yogadarśana si rifà tradizionalmente alla prospettiva vedica della trasmigrazione o saṃsāra, il ciclo senza inizio di nascite e morti ripetute in forza dell’eterna legge di retribuzione delle azioni compiute (karman); allora possiamo pensare alla morte, semplificando molto, come al momento del passaggio dell’anima a una nuova vita. A questo proposito Vyāsa scrive: “La paura della morte – sotto forma d’idea di annichilimento del Sé – che non può essere espressa attraverso la percezione, l’inferenza, o manuali d’istruzione, dispiega la sua propria potenza anche nell’insetto appena nato, conformemente all’agonia della morte patita nelle nascite precedenti”.

C’è un capitolo intitolato “La morte” nel libro L’albero dello yoga di B.K.S. Iyengar (p.39 ss); sono sicuro che molti di voi lo hanno letto e ne citerò solo un breve stralcio: “Un individuo comune crede nel perfezionamento e nella necessità di affinarsi sempre più, come l’artista che desidera migliorare la qualità della sua vita ed essere sempre migliore di prima. E così pure lo yogi sa di dover affinare se stesso sempre più; egli accetta la morte lietamente e crede nella rinascita mentre si sforza di migliorare sempre più il suo pensiero e le sue azioni”.

Vorrei concludere questa breve esposizione sui kleśa con queste bellissime parole di Guruji: “Vivete il presente e cercate di conoscervi sempre meglio. La paura della morte non può essere vinta da gente comune, ma solo dagli yogi, e non dagli yogi comuni come voi e me! Abbiamo ancora da fare molta strada nello studio dello yoga. Voi e io stiamo ancora solo sfiorando l’argomento”.

 


NOTA: Le traduzioni di Patañjali sono di Edwin Bryant, nella traduzione italiana a cura di Gabriella Giubilaro, pp.181-192. Dove non diversamente indicato gli altri testi sono stati da me liberamente tradotti, con i possibili limiti di perifrasi a scopo divulgativo.

 


Bibliografia:

Bangali Baba, YS, Motilal Banarsidass publishers PVT ltd, 1976/2010.

A.C. Bhaktivedanta Swami Prabhupāda, La Bhagavadgītā così com’è, BBT, 2019.

E. F. Bryant, Gli YS di Pātanjali, Mediterranee 2019.

B.K.S. Iyengar, Teoria e pratica dello yoga, Mediterranee, 2003.

B.K.S. Iyengar, Vita nello yoga, Mediterranee, 2008

B.K.S. Iyengar, Yaugika Manas, Yog, 2010.

B.K.S. Iyengar, L’essenza degli yoga sūtra, Mediterranee, 2014,

B.K.S. Iyengar, Yoga; Health and beyond in Aṣṭadaḷa Yogamālā, Allied Publishers Private Ltd 201/2012, III, pp. 162-168.

B.K.S. Iyengar, Yoga described, in Aṣtadaḷa Yogamālā, Allied Publishers Private Ltd 2001/2012, I pp. 73-74.

B.K.S. Iyengar, L’albero dello yoga, Ubaldini, 1989.

 

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