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Sadhana Filosofia

13/03/2025

ll Sanscrito ieri e oggi

di Iacopo Nuti

 

Figura 1. Delhi, Memoriale di Gandhi

 
 
 

ब्रह्म वै वाक्

brahma vai vāk

‘La Vāc [è] davvero il Brahman’ (Aitareya Brāhmaṇa IV.21.1).

नारायणादुद्भूतोऽयं वर्णक्रमः

nārāyaṇādudbhūto’yaṃ varṇakramaḥ

‘L’ordine dei suoni sanscriti è originato da Nārāyaṇa’ (Harināmāmṛta Vyākaraṇa I.1).

 


 

Quando negli anni novanta mi avvicinai ai grandi classici dell’India, il termine sanscrito veniva utilizzato per lo più in ambito scolastico, per la sua parentela con il latino o con il greco antico. Comunemente era opportuno identificare il sanscrito con l’antico indiano, così come anche collocarlo geograficamente nell’India continentale, per poter avere un’idea generale al riguardo.

Con lo scorrere del tempo, fino ai giorni nostri, ho potuto via via testimoniare che in Italia e più in generale nei paesi occidentali, il sanscrito non veniva soltanto considerato per la sua importanza centrale in seno alla vasta famiglia linguistica indoeuropea, quanto piuttosto veniva messo sempre più in correlazione all’universo in continua espansione dello yoga. Al punto che nella vita di tutti i giorni, il sanscrito oggi è noto ai più come la lingua dello yoga.

L’attuale popolarità del sanscrito deriva certamente dalla diffusione mondiale dello yoga, iniziata a metà del XX secolo e letteralmente “esplosa” in questo primissimo inizio di millennio, così come anche dal riaccendersi dell’interesse verso quella antica lingua dell’India che già in epoca romantica aveva innescato in Europa una vera e propria “rivoluzione culturale”, cambiando il corso della storia.

La ‘scoperta’ del sanscrito da parte dei romantici, già noto nel vecchio continente grazie alle intuizioni di uomini quali il mercante e letterato Filippo Sassetti (XVI secolo), aveva contribuito infatti alla nascita della grammatica comparata e del concetto di indoeuropeo, costringendo “a rivedere tutte le idee che si avevano sulla storia antica, sulla mitologia e sull’evoluzione dell’umanità” (Sani, 1991, p. 15).

 

Figura 2. Filippo Sassetti (Firenze, 1540-Goa, 1588)

 

L’indoeuropeo.

L’espressione “famiglia linguistica indoeuropea” definisce un gruppo di lingue antiche e moderne che mostrano, a livello fonetico e morfologico, un’antica origine comune, sulla cui natura si sono formulate svariate ipotesi. Si fanno appartenere all’indoeuropeo, lingua ricostruita a tavolino nel XIX secolo attraverso la comparazione linguistica e storicamente non attestata, le lingue celtiche, neolatine, germaniche, baltiche, slave, l’albanese, il greco e l’armeno per quanto riguarda l’Europa, mentre per quanto riguarda l’Asia, l’ittito (XVII secolo a.C.), il tocario (VI secolo d.C.) e il gruppo ario.

Dal termine sanscrito ārya (‘nobile, nobili’), riscontrabile nell’avestico Airya-, trae il proprio nome il gruppo ario o indoiranico delle lingue indoeuropee. Ad esso appartengono il sanscrito, nella sua distinzione tra vedico e sanscrito classico, le lingue prākṛta, l’iranico e le lingue kafir. Il ramo ario comprende da una parte le lingue iraniche moderne o neoiraniche come il persiano (farsi) e l’afgano (pashtu), dall’altra le lingue indiane moderne o neo-indoarie quali assamese, bengali, hindi/urdu (oggi al quarto posto nel mondo per numero di parlanti), gujarati, kashmiri, marathi, nepali, oriya, panjabi, sindhi, singalese, le parlate rom ecc.

 

Il sanscrito è una lingua morta?

A ben osservare il fenomeno culturale che stiamo vivendo, si potrebbe forse parlare di un processo di “sanscritizzazione a occidente”. Storicamente il termine sanscritizzazione si riferisce alla diffusione dell’indianesimo (testi, rituali, miti ecc.) oltre i confini fisici a oriente dell’India, come quella verso l’Indonesia e l’Indocina, causata proprio dall’immenso prestigio di cui godeva la lingua sanscrita non solo nella sua terra di origine.

Non si dovrebbe tuttavia ritenere che in India il sanscrito sia stato dimenticato, come nel caso di una lingua morta. La fase creativa della letteratura antico-indiana è sempre rimasta viva, “dal momento che ancor oggi è possibile accostarsi all’insegnamento di coloro per i quali il sanscrito è un fatto di vita quotidiana”; presenti ovunque nel subcontinente indiano “i paṇḍita […] conservano una dimestichezza piena, a distanza di più di tremila anni dalle sue attestazioni prime, di questa ‘lingua-cultura’ fra le più antiche della terra” (Passi, 1998, p. X).

Sorprende il fatto che, grazie alla nascita di scuole e centri ispirati alla cultura dello yoga, ai giorni nostri è possibile incontrare tali uomini di sapere nati in India, i paṇḍita appunto, in ogni parte del mondo.

 

Figura 3. British Museum. Scene dal Rāmāyaṇa

 

Il sanscrito dei brahmani e della gente comune.

La più antica attestazione del termine sanscrito nella letteratura indiana è rintracciabile nel Sundara-kāṇḍa, il quinto libro del Rāmāyaṇa (Torella, 2012, p. XI). Di seguito il brano in oggetto:

“Essendo impegnata in questi pensieri, l’accorta scimmia formulò questo piano:

Racconterò del prode Rāma in modo da dare indizi di verità e parlerò quindi sanscrito come un uomo. Così non spaventerò la donna che ha la mente tutta fissa in quel pensiero. Infatti, se mi udrà parlare del prode Rāma suo sposo, quando mi vedrà davanti a Lei, quella pia donna non avrà paura di me” (Rāmāyaṇa, V.29.30-35).

L’accorta scimmia in questione è Hanumat, “il figlio del vento”, uno dei principali protagonisti dell’opera che, insieme al Mahābhārata, è non solo una delle più antiche epiche della letteratura indiana, ma anche uno dei testi filosofici e religiosi più importanti del subcontinente. In questo passaggio l’eroico Hanumat decide di parlare “sanscrito come un uomo” e non “il sanscrito a guisa di un brahmano” (Rāmāyaṇa, V.29.17) in modo da meglio riuscire nell’intento di confortare Sītā, la sposa celeste di Rāma che era stata rapita ed esiliata dal demonio Rāvaṇa.

Dalla lettura di questi versi risulta l’esistenza di due registri della lingua sanscrita: uno elevato e brahmanico, come una sorta di sermo grave/sublime che il grande eroe decide di non utilizzare; l’altro, un registro più colloquiale, secondo uno stile umile proprio degli uomini comuni, da utilizzare ad hoc per l’occasione.

Con queste riflessioni sui livelli linguistici Vālmīki, il poeta cui viene attribuito il “Viaggio di Rāma” e dalla tradizione letteraria avvicinato per grandezza ad Omero, in qualche modo sembra ricordare, lontano nel tempo e nello spazio, Dante o Alessandro Manzoni nella loro appassionante ricerca sulla questione della lingua.

I grandi protagonisti della letteratura antica dell’india e dell’Europa sono stati ricordati anche nella toponomastica: a Roma via Omero si congiunge con via Vālmīki e, proprio nel punto di incontro delle due strade vi è uno spazio aperto, di fronte alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna e Contemporanea, dove si ergono le statue dei due grandi poeti.

 

Dalla parola alla scrittura.

Un’altra considerazione, davvero non secondaria per importanza, riguarda la “oralità” della lingua sanscrita. Per quanto inscindibilmente connesso ai testi sapienziali dell’India di cui è aulico traghettatore, il sanscrito infatti serviva non solo per scrivere ma anche per parlare. Così, mentre durante l’impero romano l’Europa parlava latino e durante il periodo ellenistico il mediterraneo parlava greco antico, nel territorio che si estende dalla valle dell’Indo alla terra dei “cinque fiumi” fino al Gange, da lungo tempo si parlava sanscrito. Questa è l’area in cui, secondo le fonti letterarie più autorevoli, erano stanziate le popolazioni che si definivano ārya “nobili”, forse da un significato originario di “ospitale” (Passi, 1998, p. VI).

In effetti gli antichi indiani hanno per lungo tempo fatto a meno della scrittura. Non perché non la si conoscesse, ma perché essa “fu riservata per lungo tempo solo per scopi pratici, come ci è testimoniato da antichi testi giuridici e da alcuni accenni in testi buddhisti” (Sani, 1991, p. 17). Similmente ad altre tradizioni storiche, il patrimonio culturale di cui i Veda erano espressione venne tramandato, in origine, per via orale dai saggi-poeti, fino a che le raccolte di inni e gli altri testi cominciarono a essere redatti anche per iscritto.

 

Sanscrito vedico e sanscrito classico.

Il sanscrito si presenta così ai nostri occhi come il risultato di una evoluzione storica plurisecolare, di cui si possono riconoscere le tappe nei Veda, i monumenti linguistici più antichi dell’India.

Con Veda, che letteralmente significa “sapienza”, si fa specifico riferimento ai libri sapienziali rappresentati da quattro raccolte (saṃhitā) di laudi, melodie e formule rituali e religiose, da opere esegetiche e di commento (Brāhmaṇa e Āraṇyaka) e da quelle più spiccatamente filosofiche (Upaniṣad). Questi ultimi gruppi di opere sono già vicini per lingua al sanscrito classico o semplicemente sanscrito, mentre si definisce vedico o sanscrito vedico la lingua delle quattro ‘raccolte’ di inni: Ṛgveda, Sāmaveda, Yajurveda e Atharvaveda. La fase più antica del sanscrito vedico, attestata nel Ṛgveda (‘Veda dei canti’), secondo la maggior parte degli studiosi risale a un periodo compreso tra il 1500 e il 1200 a.C.

Oltre ai trattati esegetici delle opere vediche, in sanscrito classico furono scritti i poemi epici (Mahābhārata e Rāmāyaṇa) e altri testi fondamentali quali i Purāṇa, la Bhagavad Gītā e la letteratura dei sei darśana. Più in generale, il sanscrito è la lingua utilizzata per ogni altro genere letterario e per una immensa letteratura scientifica che tocca tutti i rami del sapere: la lirica, il teatro, la narrativa, la favolistica, la grammatica, la filosofia, la matematica, l’astronomia, il diritto, la politica, la medicina, ecc.

 

Le lingue prākṛta.

Fondamentale risulta la produzione della letteratura nelle lingue prākṛta, lingue naturali (in sanscrito prākṛti = ‘natura’) sviluppatesi da una tradizione parallela al sanscrito in un periodo compreso tra il 300 a.C. e il 200 d.C. e che quindi “non derivano dal sanscrito come le lingue romanze dal latino”.

I maggiori esempi di antiche lingue prākṛta sono il pāli (‘ordine, canone’), lingua del canone buddhista, la lingua delle iscrizioni dell’imperatore Aśoka (272-231 a.C.), la lingua della maggior parte delle opere tramandate dalla poesia e dal teatro e quella dei testi jainisti. “Ai dialetti parlati che sono alla base dei prācriti risalgono le lingue arie moderne dell’India” (Lazzeroni, 1994, pp. 128-9).

 

Figura 4. Pāṇini trascrive la sua grammatica in una vignetta contemporanea (da Hindu.com)

 

Il significato di sanscrito e l’opera di Pāṇini.

A questo punto potrebbe sorgere una domanda: qual è dunque il significato di sanscrito? Il termine è un adattamento di saṃ-s-kṛ-ta che, formato sulla radice √kṛ al participio passato e preceduto dal preverbo sam “con”, proprio come nel latino con-fec-tum, rappresenta un vocabolo utilizzato non solo in ambito linguistico, relativo all’idea generale di qualcosa di “perfettamente compiuto”.

Grazie all’opera di Pāṇini, studioso appartenente a una autorevole tradizione di grammatici, alcuni secoli prima dell’era volgare la lingua dei Veda, ad un certo punto della sua storia, fu per così dire sottratta all’azione del tempo, raffinata con un lavoro di cesellatura e codificata all’interno di una celeberrima grammatica scritta in aforismi e ripartita in otto parti, nota per questo come Aṣṭādhyāyī.

Tale opera, considerata il trattato grammaticale (vyākaraṇa) per antonomasia e più in generale la più straordinaria descrizione di una lingua che sia mai stata compiuta dall’uomo, sarebbe servita da modello insuperabile per i posteri. Da questa che fu un’operazione linguistica senza precedenti, nacque la norma definitiva del sanscrito, la bella lingua dell’India che ha affascinato e continua ad affascinare poeti e studiosi di ogni dove da almeno 2500 anni.

 

La tradizione dei grammatici e Patañjali.

Tale straordinaria operazione linguistica, avvenuta intorno al V sec. a.C., è certamente qualcosa di più unico che raro nella storia della letteratura. Tuttavia non dovrebbe sorprendere chi si avvicina allo studio del sanscrito. Il genio di Pāṇini, considerato il più grande linguista dell’antichità, non casualmente riuscì ad esprimersi e ad eccellere in una scuola di grammatici antichissima e nobile. In questa prospettiva può risultare interessante una considerazione sulla grammatica e sui grammatici da parte di Patañjali (II sec. a.C.) nel suo Vyākaraṇa Mahābhāṣya, il “Grande Commentario” all’opera di Pāṇini che in un certo senso può riassumere, nel proprio caratteristico stile dialogico, tutto quanto finora accennato:

“Ma chi sono costoro? I dotati d’istruzione (śiṣṭa) sono tali in base alla regione in cui abitano e al loro modo di vita. E il loro modo di vita è quello dell’Āryāvarta. Ma che cos’è questo Āryāvarta? A est dell’Ādarśa, ad ovest della foresta di Kālaka, a sud dell’Himālaya, a nord del Pāriyātra: in questo territorio abitato dagli Ārii, i brahmani in possesso di niente più del grano che entra nel pugno di una mano, esenti da cupidigia, che agiscono senza essere spinti da un diretto interesse, che dominano l’una o l’altra scienza senza averla mai dovuta studiare: questi sono gli śiṣṭa. Ma se costoro costituiscono l’autorità in fatto di lingua, allora a che serve più la grammatica di Pāṇini? La grammatica di Pāṇini serve a riconoscere gli śiṣṭa […] (Vyākaraṇa Mahābhāṣya, III, p.174; la traduzione è liberamente tratta da Torella, 2012, pp. XV-XVI).

L’opera in oggetto è rilevante anche perché, proprio per una corrispondenza filologica fra il suo incipit e quello dei ben più noti Yogasūtra, la maggior parte degli studiosi tende a identificare il Patañjali autore del “Grande Commento” con il Patañjali autore degli “Aforismi dello Yoga” (Piano, 2008, pp. 253-4). In questa ottica il celebre filosofo dello Yoga classico sarebbe anche il raffinato grammatico e artigiano di parole che negli Yoga-sūtra si elevò alle vette più alte della propria arte.

 

Figura 5. Londra, National Library. Bhagavad Gita (I.20-21)

 

Vāc, la parola sorgente di tutto l’universo

La letteratura indiana si è interessata alla grammatica e più in generale alla speculazione sul suono fin dalle origini. Vāc, la ‘parola vedica’ ritenuta tradizionalmente sorgente di tutto l’universo e veicolo di ‘rivelazione non umana’ (apauruṣeya), doveva rimanere foneticamente e morfologicamente intatta per essere efficace.

Il carattere principale del sanscrito è il rigore: la lingua vuole essere grammaticalmente perfetta al fine di preservare l’originaria perfezione della “Parola Creatrice” (Varenne, 1971, p. 5).

Così intorno ai Veda “nascono ben presto una serie di discipline di supporto nel numero tradizionale di sei, di cui ben quattro sono di natura linguistica”: Śikṣā si occupa di fonetica, chandas di metrica, nirukta di etimologia, vyākaraṇa di grammatica (Torella, 2012, p. XIV).

In questa ottica può risultare più comprensibile il fatto che la Taittiriya Upaniṣad, una delle più antiche Upaniṣad vediche, dedichi un intero capitolo all’insegnamento fonetico. La stessa scrittura devanāgarī, utilizzata dal sanscrito per buona parte dell’era volgare (e da quasi un secolo dalla lingua hindi, seppur con qualche leggerissima variante), “è qualcosa di più che un semplice sistema grafico: è una vera e propria trattazione di fonetica” (Sani, 1991, p. 20), secondo la quale ogni simbolo grafico si legge in un unico modo e ogni suono ha un’unica rappresentazione.

Inoltre, a differenza degli alfabeti occidentali in cui le lettere seguono un ordine casuale, “i segni della scrittura devanāgarica sono elencati secondo il criterio della successione degli organi fonatori a partire dai più interni (la gola e il palato) fino a quelli più esterni (le labbra)”. Ultimo ma non meno importante, in tutto questo non si può non menzionare una delle caratteristiche più affascinanti del sanscrito: il sandhi, un fenomeno musicale così potente da incidere perfino nella redazione grafica dei testi più antichi!

 

Perché studiare il sanscrito oggi

Già si accennava sopra come, ai giorni nostri, molti ricercatori provenienti dall’universo dello yoga si avvicinino allo studio del sanscrito al fine di approfondire la propria disciplina, acquisire maggiore consapevolezza degli antichi esercizi posturali (āsana) e delle tecniche di meditazione e di respirazione. Il sanscrito è la lingua letteraria per eccellenza dell’India, nella quale in effetti è stata redatta la stragrande maggioranza delle fonti relative allo yoga. Si può definire una lingua di tipo flessivo, in maniera del tutto simile ad esempio a lingue come il latino e il greco, con le quali è accomunata da suggestive affinità.

Come per lo studio di queste lingue, apprendere il sanscrito “oggi è importante sia per la lingua in sé, sia per i processi mentali cui abitua ed esige per essere ben compresa” (Orsola, 2023, p. 8).

Allo studente che si avvicina al sanscrito si richiede di “ragionare” fin dalla consultazione del dizionario, i cui lemmi seguono un ordine diverso dal nostro ma di mirabile bellezza. Quindi poi di “riflettere” sulla flessione e sulle concordanze dei nomi, degli aggettivi e dei verbi, considerando gli otto casi che caratterizzano la grammatica sanscrita, la vitalità del duale (non solo per le “parti in coppia” del corpo umano), il tipo di proposizione caratteristico di certi testi; il tutto nel tentativo di approcciarsi al mondo etico e spirituale descritto nella meravigliosa letteratura che la lingua sanscrita ha portato fino a noi.
Allo studente che si avvicina al sanscrito si richiede, in sintesi, la disponibilità a un viaggio con qualche disagio, ma ricco di avventure.

 


Bibliografia:

Lazzeroni R., Sanscrito, in Le lingue Indoeuropee, a cura di A. G. Ramat – P. Ramat, Il Mulino, Bologna, 1994.

Orsola G., Sermo Nativus, Rubrica di Grammatica e Sintassi latina, Graphe.it Edizioni, Perugia, 2023.

Passi A., Cenni di storia della lingua sanscrita, in C. Della Casa, Corso di Sanscrito, Edizioni Unicopli, Milano, 1998.

Piano S., Enciclopedia dello Yoga, Magnanelli, Torino, 2008.

Pontillo T., Dizionario Plus Sanscrito, A. Vallardi Editore, Milano, 2005.

Radicchi A., Vāc e Vivakṣā: creatività e comunicazione, in La Parola Creatrice in India e nel Medio Oriente, Atti del Seminario della Facoltà di Lettere dell’Università di Pisa, 29-31 maggio 1991, a cura di C. Conio, Giardini Editori, Pisa, 1994.

Sani S., Grammatica Sanscrita, Giardini, Pisa, 1991.

Sassetti F., Lettere dall’India (1583-1588), a cura di A. Dei, Salerno Editrice, Roma, 1995.

Srī Jīva Gosvāmī. Hari-nāmāmṛta-vyākaraṇam, translated by Matsyāvatāra Dāsa, Rasbihari Lal & Sons, Vrindavan, 2016.

Torella R., Il sanscrito, o l’ossessione della lingua perfetta, in A. Aklujkar, Corso di Sanscrito, edizione italiana a cura di R. Torella e C. Mastrangelo, Hoepli, Milano, 2012.

Varenne J., Grammatica del Sanscrito, ed. originale Grammaire du Sanskrit, ediz. P.U.F., “Que sais-je”, n. 1416, 1971, traduzione e edizione online a cura di www.sathyasai.com/sanscrito/index/.

 

Riferimenti immagini:

Flickr.com;
https://www.britishmuseum.org/collection/object/A_1994-0413-0-1;
theindhu.com;
Wikipedia

 


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